1. Lavoro e scrittura
Quando parliamo del nostro lavoro, proviamo sempre con sorpresa un leggero disagio. Ci riusciamo, ma ci chiediamo: perché questo bisogno perenne di spiegare le cose? Alla fine, abbiamo scelto di affrontare la questione perché al suo interno si celano differenziazioni significative. Una delle intuizioni più importanti che ci offre la nostra pratica è che l’attenzione alla differenza e la relazione tra le cose che vi corrisponde è il modo in cui si creano senso e significato. Consideriamo l’attenzione alla differenza come il contenitore provvisorio di un’etica del progetto. Per esporla in un modo più pratico e articolato, un punto di partenza ragionevole è la distinzione tra ciò che ci interessa del design e ciò che significa scrivere o parlare di esso.
La nostra posizione deriva da tre timori comuni sull’impiego delle parole. C’è il desiderio paralizzante di proteggere le proprie idee come di consentire loro di fallire. Negoziare cura e rischio, tuttavia, non è così diverso dal gestire i disegni destinati letteralmente alla costruzione. C’è anche il timore di un’interpretazione errata. Ogni edificio rimane muto e senza scuse mentre innumerevoli individui traggono le proprie conclusioni sulla mentalità dei suoi progettisti assenti. Questo non solo lo accettiamo ma, come diremo, non prevediamo che ci siano altri modi per dare significato o senso all’opera. Poi c’è il timore che, in fondo, non ci sia nulla che valga la pena di dire. Tuttavia, questa tensione, dissonanza, guaio o qualsiasi altra metafora oppositiva si scelga, non è un sintomo di una fiducia incerta. Deriva piuttosto dalla constatazione che molto del significato architettonico, della bellezza, del piacere o delle virtù della difficoltà di una geometria non può essere detto. Può essere reso solo dagli edifici.
A nostro avviso, è più probabile che la descrizione e la narrazione interferiscano con l’esperienza piuttosto che migliorarla, così come le credenze possono ostacolare la scoperta senza annunciare la perdita. Questo può sembrare consonante con il primo timore, ma non c’è un ideale a rischio di ossificazione, quanto piuttosto il rischio di perdere ciò che si ha. Può riecheggiare anche il secondo timore, ma non c’è nessuna storia da fraintendere all’interno dell’opera stessa. Le storie che contano avvengono tutte dopo. Queste storie sono incontri personali individuali con edifici completi, che sono sempre e per sempre aperti all’interpretazione. Raramente le conosciamo e sono ciò che più conta.
Ci interessa l’esperienza umana immediata dell’architettura. Soprattutto, la costruzione del senso, del significato e del piacere nel processo del lavoro come nel risultato. Questi, sosteniamo, sono inaccessibili al linguaggio e, se abbiamo torto al riguardo, sono inaccessibili al nostro onesto uso del linguaggio. Ma perfino la fotografia, cui diamo molto valore e su cui contiamo, è un pallido riflesso dell’esperienza architettonica, che è più di una esperienza tattile, perché include aspettative e sogni, necessità e sorpresa, routine e desiderio. Questo è vero per noi nel crescere all’interno della disciplina come speriamo lo sia per ciò che il nostro lavoro conseguirà.
Di seguito presentiamo un resoconto di come la nostra esperienza e i nostri valori evidenzino un metodo eterodosso, in luogo di una teoria; un resoconto che delinea la nostra architettura ma non deve essere inteso quale motivazione o guida alle nostre opere. Non è così. Per noi è una differenza importante da sottolineare, così che quando ci riferiamo ad aspetti specifici di progetti precedenti i nostri lettori li affrontino con riserva.
2. Contesto storico
Quando abbiamo fondato il nostro studio a Vancouver, in Canada, nel 1984, sulla costa nordamericana occidentale si respirava ancora un clima da dopoguerra. In quel periodo storico, nell’occidente nordamericano, si era sviluppato un senso di tabula rasa culturale proprio dell’entusiasmo colonialista. Si fondava su una rapida prosperità, su un’industrializzazione diffusa e sull’adozione di alcuni ideali modernisti. Di conseguenza, l’ambiente costruito che si sviluppò era estremamente uniforme e indefinibile. Vancouver, nonostante il contesto naturale di straordinaria bellezza, era ed è ancora l’espressione di un disinteresse storico e di banalità opportunistiche. Durante i nostri primi viaggi, invece, ci siamo imbattuti in diversi luoghi meno recenti che presentavano un’eterogeneità equilibrata, segno di un’identità locale più definita. Notando questa differenza ci siamo resi conto che la cultura pare costituire l’essenza e il fondamento necessari per produrre ambienti significativi in base alla differenziazione tra il generale e il particolare.
Una prova di immaginazione può dimostrare la relazione tra uniformità e particolarità nell’ambiente costruito: immaginate di muovervi in una città priva di elementi uniformi, dove tutti gli edifici sono sculture e dove persino le strade, i marciapiedi e la segnaletica sono elementi distintivi e dove ogni componente è espressione di stravaganza e non si conforma ad alcuna convenzione. Un posto così potrebbe essere elettrizzante ma sarebbe anche incomprensibile. Non essendo coerente con alcun insieme organicamente leggibile, non avrebbe senso. Immaginate ora di attraversare un luogo uniforme, estremamente razionale, regolare e ripetitivo. Per quanto possa essere pragmatico, questo ambiente non presenta alcun contrasto, non ha tratti identificativi né aspetti caratteristici. Un luogo simile, senza elementi contrastanti, non può contenere spazi identitari. Non può avere un significato. In entrambi i casi non è solo la mancanza di ordine o di carattere a rendere un ambiente sterile, impersonale; è la mancanza di differenziazione tra il particolare e il generale che impedisce di coniugare senso e significato.
Affermare che Vancouver rappresenti l’incubo monomaniaco descritto nella seconda città immaginaria, sarebbe un’esagerazione singolare. Tuttavia negli anni in cui il nostro studio cercava di trovare la propria strada, sembrava fosse quella la direzione. Non era solo causa del dopoguerra, ma era anche il frutto della progressiva globalizzazione. Non c’è un’unica spiegazione dietro all’indirizzo gestionale intrapreso dalla città e dietro ai modelli globali a cui si è ispirata. Tuttavia, i cambiamenti a livello economico, politico e culturale possono essere considerati testimonianza dell’attenzione collettiva – o della mancanza di attenzione – nei confronti dell’ambiente costruito. Sebbene tali forze possano apparire inevitabili nella loro smisurata estensione, come un fiume tra i suoi argini, ogni elemento stabile è in parte responsabile di questo sviluppo. Riteniamo che ogni nostro impegno rappresenti uno di questi elementi. Una volta osservata la realtà, facciamo in modo che ogni progetto abbia un carattere specifico rispetto all’ambiente che lo circonda.
In qualsiasi luogo in cui gli edifici negano il contesto trattando il suolo come un piano astratto e la cultura come un segmento di mercato, lo spazio diventa un semplice prodotto e il materiale un elemento superficiale: un luogo caratterizzato da una genericità senza senso e senza significato. Non siamo certo i primi ad affermare che, nell’ambiente costruito, per produrre qualcosa che abbia un senso e un’identità è d’obbligo prestare attenzione alla differenza. A Vancouver, o in qualsiasi luogo caratterizzato dall’uniformità, è necessario – anche se insufficiente – che gli architetti promuovano la specificità, sostenendo così lo sviluppo della cultura locale.
3. Fare la differenza attraverso le scale architettoniche
La nostra esperienza ci ha insegnato che un ambiente costruito significativo e persino empatico nasce solo dalla differenziazione. Il nostro processo progettuale è un’applicazione pratica di questo insegnamento che affronteremo analizzando tre scale: il sito o contesto, al cui interno si trovano forma e spazio, all’interno dei quali si trovano a loro volta i materiali. La separazione di queste tre categorie aiuta a definirle, ma in realtà, nel nostro processo non ci sono confini ben definiti tra loro, né un metodo prefissato per affrontarle. Sono elementi basilari in una rete non lineare di processi decisionali e di immaginazione.
3.1 Fare la differenza attraverso il sito
Il sito non è semplicemente il lotto di terreno su cui costruire, è la sua topografia o le sue condizioni ambientali come l’esposizione solare, i venti prevalenti, la geologia e la presenza di acqua; tutti questi fattori sono necessari ma insufficienti. Come luogo di progettazione, il sito è qualcosa di più ampio e al tempo stesso più specifico. È il modo in cui il suolo e le sue caratteristiche riguardano un contesto socioeconomico e culturale, e sono espressioni di necessità o volontà. È l’insieme dei fatti circostanziali che stimolano l’immaginazione verso una possibilità particolare, che non segue presupposti generici.
La Sq’éwqel Community School, costruita da e per la comunità Seabird Island First Nation nel 1991, occupa il margine di un’ampia pianura alluvionale del fiume Fraser. Qui le differenze sono elementari quanto le direzioni date dai punti cardinali. I venti incanalati dai canyon a nord sferzano questo bacino pianeggiante e fertile ai piedi delle Montagne Costiere. L’edificio è relativamente solitario, esposto su tutti i lati e orientato verso la comunità di Seabird Island a sud. Posta al confine tra i venti artici e il calore umano e del sole, la scuola è opportunamente ribassata e protetta verso nord da pannelli in legno di cedro resistenti alle intemperie, aperta a sud con ampie vetrate schermate dal tetto sporgente, superfici bianche e luminose e spazi articolati. Abbiamo imparato dalla comunità che le geometrie ortogonali ricordavano loro la tragica storia della colonizzazione europea. L’imperativo di non utilizzarle, la vicinanza visiva delle montagne, la posizione solitaria in una così vasta pianura e la volontà di soddisfare le aspettative della comunità hanno contribuito a creare la forma dinamica dell’edificio.
La residenza Tula (2012) si affaccia sull’Oceano Pacifico ed è l’espressione dei cinque aspetti del sito su cui si erge. La forma della pianta, in apparenza aperta e dinamica, è frutto della differenziazione all’interno del suo contesto. Protagonista è il paesaggio naturale che si sviluppa tra l’oceano e il profilo delle montagne della Columbia Britannica all’orizzonte. Avvicinandosi alla casa, si scorge il litorale situato 15 m più in basso: un ammasso di relitti e rottami che si ricompongono in continuazione in modo disordinato tra le rocce della costa. L’acqua fluttua sul terreno ondulato depositandosi brevemente sul giardino per poi rifluire in mare. Osservando da vicino le formazioni rocciose di basalto emergenti si notano muschi e licheni; nella foresta circostante prevalgono gli abeti di Douglas ma si trovano anche ontani rossi e aceri a foglia larga. Nel processo progettuale ci siamo impegnati a intrecciare questi elementi diversi con lo spazio abitativo della casa, permettendo ai relativi ambienti interni di entrare in contatto con il paesaggio circostante.
L’Audain Art Museum (2016) si erge su un sito complesso, un ex cantiere sulla pianura alluvionale di un rio di montagna. Per proteggerlo dalle alluvioni, quando il piccolo corso d’acqua si trasforma in un impetuoso torrente di alberi caduti, ghiaccio e rocce, il museo stesso è stato costruito come un ponte in acciaio con il minor numero possibile di piloni strutturali. La copertura, inoltre, dato che in questa regione possono cadere fino a cinque metri di neve, ha una forma concepita per supportare un grande peso. È su questo straordinario sito plasmato dall’acqua che Michael Audain e Yoshiko Karasawa hanno voluto riunire la loro collezione d’arte. Quest’opera, che traccia la storia dell’arte della Columbia Britannica dal tardo Ottocento fino ai giorni nostri, fa di questa regione naturale un ambiente culturale. L’edificio si sviluppa tra gli alberi e si apre sulla città di Whistler con un grande portico riparato. All’interno le opere sono esposte in gallerie sul lato rivolto verso l’abitato, dal lato opposto un corridoio vetrato affaccia sul bosco e sul prato, sottoposti entrambi a un’accurata manutenzione. La differenziazione degli spazi interni accompagna i visitatori nel loro percorso attraverso le gallerie a contatto con la natura, tema della maggior parte delle opere esposte.
3.2 Fare la differenza attraverso lo spazio e la forma
Lo spazio e la forma dell’architettura sono un binomio inscindibile. Il primo ha caratteristiche sociali (luoghi in cui avvengono cose) e fenomeniche (esperienze di confini e centri), la seconda è la morfologia della costruzione che struttura lo spazio. Essa può essere definita metricamente, mentre lo spazio va oltre tale definizione in quanto nasce dall’esperienza e dalla proiezione. Una balconata alta vista da sotto, per esempio, genera una disposizione all’estensione nella nostra mente molto prima che il suo prospetto venga compreso. Per essere composto architettonicamente, lo spazio deve essere considerato come una sequenza di esperienze che si sviluppano attraverso il movimento in relazione alla forma. La diversificazione avviene tramite le transizioni in quella sequenza. Per ampliare i termini da noi usati, “particolarità” e “generalità” si possono tradurre in “espressività” e “ricettività”, dove il particolare è espressivo dal punto di vista architettonico e il generale è più ricettivo all’uso e all’interpretazione degli occupanti.
La scuola elementare Strawberry Vale (1995) è una composizione di forma e spazio profondamente ancorata al sito e molto articolata tramite i materiali. I due volumi principali, protetti da un grande guscio che prospetta il contesto suburbano a nord, ospitano quattro capsule con le aule che affacciano sulle formazioni rocciose e sul bosco di querce a sud. Questa struttura è arricchita da una successione di spazi molto dinamici che animano ed esaltano il complesso architettonico. Piegature e cambiamenti di quota scandiscono questo nastro di spazi dove si sviluppano ambienti più piccoli destinati a incontri spontanei tra gli studenti. All’interno delle aule i soffitti sono ribassati per creare un’atmosfera di tranquillità e le superfici sono bianche per evidenziare i lavori degli studenti. Ogni capsula che racchiude le classi ha la stessa pianta ma ognuna è sfalsata o ruotata rispetto all’altra richiamando le formazioni rocciose all’esterno. Queste soluzioni formali insolite creano un’articolazione degli spazi molto particolare e raffinata che si trasforma all’aperto in una sequenza di spazi differenziati per attività educative, definiti sia dall’architettura, sia dalla natura.
La Polygon Gallery (2017) è un esercizio di ridefinizione dello spazio tramite forme molto esplicite e definite. L’edificio sorge su un sito industriale riqualificato lungo la banchina portuale e si apre su una piazza aperta al pubblico su cui affaccia il volume sospeso del secondo piano. Il profilo seghettato rievoca visivamente l’uso precedente del sito ma, in realtà, è puramente funzionale all’illuminazione delle gallerie all’interno, consentendo al contempo un recupero della storia del sito. Il volume principale dell’edificio è sospeso rispetto alla linea di terra, creando una lobby open space delimitata quasi esclusivamente dal suo soffitto. Questo aggetto, più che a proiettare in avanti l’edificio, ha il compito di attirare il pubblico all’interno: lo protegge prima dalla pioggia, poi lo introduce nell’atrio e infine lo accompagna gradualmente verso la galleria. Questo spazio espositivo, molto contenuto, cambia il senso dello spazio: si passa da una sensazione estroversa di accoglienza al pianterreno a una dimensione introversa al livello superiore. Lo spazio stesso della galleria, diversamente dalla facciata espressiva, è sobrio e generico per lasciare alle opere d’arte il ruolo di conferire particolarità all’ambiente.
La Thunder Bay Art Gallery, un progetto in fase di costruzione che dovrebbe essere completato nel 2025, si trova lungo il litorale del Lago Superiore, un tempo zona industriale. Le popolazioni Anishinaabemowin e Ojibwe, a cui è dedicata, l’hanno ribattezzata Pinesi Waaji Waawaabadahiwewigamik ashij lniniwag Ooshjikewinan, ovvero “il luogo dove vengono esposte le cose fatte dalle persone”. Prima di iniziare la progettazione ci siamo consultati con circa 30 rappresentanti delle comunità autoctone, inclusi anziani e artisti. Abbiamo parlato della posizione, dell’organizzazione e della forma dell’edificio e sono prevalse alcune richieste, tra cui un orientamento simbolico in relazione agli assi cardinali, la forma curvilinea e l’inserimento di un racconto sacro degli Ojibwe in cui la Terra rinasce dopo un diluvio punitivo sul dorso del guscio di una tartaruga. I prospetti verso l’entroterra e verso il lago, che presentano forme lineari introflesse, variano da un’estremità all’altra, con un senso di movimento e di trasformazione che ricorda l’andamento della tartaruga. Il lato convesso rivolto verso l’entroterra si apre su un terrapieno da cui è stato ricavato il giardino d’ingresso di forma ovale. Verso il lago, la massa concava dell’edificio abbraccia un ampio parco pubblico e offre una vista panoramica del lago. Questa distinzione armonizza il contesto autoctono, il percorso attraverso l’edificio e le collezioni, con il paesaggio sullo sfondo.
3.3 Fare la differenza attraverso i materiali
I materiali evidenziano la texture dell’architettura. La differenziazione corrisponde al ruolo dei materiali nel rendere espressivo l’aspetto di un edificio e delle sue parti. Ci sono diverse accezioni possibili dei termini “generale” e “particolare” nel contesto dei materiali: in alcuni casi possono significare “moderazione” ed “elaborazione”, in altri “mimetizzazione” e “manifestazione”. Il materiale può essere usato per articolare una costruzione oppure per assemblare la superficie di una forma. C’è il materiale che si sottrae all’attenzione e quello che si impone.
Un confronto per gradi di due progetti, l’Audain Art Museum e la Polygon Gallery, evidenzia la differenziazione dei materiali in determinate specificità architettoniche. Il loro uso in contesti diversi contribuisce in modo significativo alla particolarità e alla materializzazione della loro architettura. I due progetti affrontano dal punto di vista del materiale tre aspetti architettonici principali: l’aspetto esterno, lo spazio pubblico interno e quello espositivo.
Il rivestimento esterno color carbone dell’Audain Art Museum lo mimetizza tra le chiome degli alberi, ne occulta la massa dell’involucro dando risalto al paesaggio boschivo circostante. È solido, liscio, inclinato e spesso per resistere alle sfide ambientali già descritte. La Polygon Gallery, al contrario, può enfatizzare il proprio spazio per conferire al sito post-industriale su cui sorge un’aura ambientale non dovendosi confrontare con un clima avverso ma potendosi concentrare sull’articolazione dell’aspetto esterno. In un processo sperimentale in cui sono stati costruiti modelli e prototipi in scala reale, abbiamo realizzato una imprevedibile combinazione di oggetti in acciaio inossidabile lucidato a specchio e in alluminio espanso, assemblati per sperimentare le tonalità cangianti del cielo. La texture opaca e la profondità fisica dell’alluminio attutiscono il bagliore dell’acciaio a specchio creando riflessi con appena percepibili parallassi che alleggeriscono la solidità della facciata.
Questi due progetti hanno con il pubblico una relazione molto diversa che richiede una diversa espressività del materiale. L’intera massa della Polygon Gallery è sospesa: questa disposizione crea uno spazio interno quasi completamente smaterializzato ottenuto sfumando il confine dell’istituzione e valorizzando il livello stradale. L’Audain Art Museum invece deve uscire dall’ombra della foresta e affermare la propria presenza sulla strada per invitare il pubblico ad entrare. Per questo motivo abbiamo progettato una grande apertura luminosa e un portico coperto rivestito in legno naturale che sembra emanare luce e calore. Questa superficie permea gli spazi interni, conducendo i visitatori attraverso un percorso con ampi scorci sulla foresta fino al cuore delle gallerie.
Gli spazi espositivi dell’Audain Art Museum sono destinati a ospitare un’ampia varietà di opere d’arte, da sculture indigene riportate al loro luogo d’origine, a dipinti degli anni Cinquanta, a installazioni contemporanee multimediali. Gli spazi sono di conseguenza bianchi ed essenziali con una minima espressione architettonica e un massimo controllo curatoriale. La Polygon Gallery deve anch’essa affrancarsi dall’architettura, ma in modo ancora più leggibile. Assomigliando più a un luogo di studio che a un museo tradizionale, la struttura dei pavimenti, delle pareti e dei soffitti è robusta e rigorosa, capace di supportare iniziative artistiche imprevedibili. Un sistema di monitoraggio della luce orientato a nord diffonde la luce naturale. Al di sotto, un impianto di canalizzazione in acciaio fornisce energia, illuminazione e dati, oltre a fungere da supporto strutturale per opere d’arte e pareti divisorie temporanee.
4. Fare la differenza nella pratica
La nostra attrazione per i materiali, la loro interazione con forma, spazio e struttura, e il nostro piacere nel fare le cose si sono tramutati in un’occupazione parallela, in una specie di gioco, che riempie il contenitore di cui parlavamo all’inizio: è l’attenzione alla differenza. Per quanto siamo tentati di affermare che la pratica si basa su una teoria rigorosa e prestabilita, la nostra emerge dall’opera stessa, dal rifiuto di creare uno stile predefinito e dalla consuetudine di analizzare il nostro lavoro alla ricerca di potenzialità non realizzate. Il modello analitico di Strawberry Vale è un esempio di questa pratica riflessiva. Rifacendo il progetto lasciando volutamente parti incompiute, ci siamo accorti di come le strutture, gli elementi assemblati e i materiali contribuiscano alla forma e allo spazio; una consapevolezza che può essere applicata a progetti futuri. Questo processo cognitivo appartiene a un certo modo del fare che si avvicina al nostro. C’è il “fare” per adempiere a un’istruzione, con proprie virtù, e il “fare” per imparare ciò che può essere fatto.
E, forse, quello che può essere fatto non corrisponde a ciò che è stato fatto.
I Winnipeg Skating Shelters (2011) con le loro limitate dimensioni e un programma vincolato ed effimero, ci hanno consentito di impegnarci nel fare come approccio diretto alla progettazione. Anche se allora non lo sapevamo, queste capanne sarebbero diventate gli archetipi di un’intera linea di ricerca che continua ancora oggi e che abbiamo chiamato “Material Operations”. Queste piccole costruzioni sono state sviluppate attraverso una serie di tentativi ed errori con modelli in scala reale. Abbiamo iniziato usando un materiale che conoscevamo, il compensato; era disponibile, flessibile e facilmente lavorabile. Ci siamo chiesti se questo materiale da solo avrebbe potuto definire forma, spazio e struttura. Lo abbiamo spinto oltre i suoi limiti e piegato fino al suo punto di rottura, scoprendo non solo tutte le sue potenzialità, ma trovando anche qualcosa che altrimenti non avremmo neanche immaginato. Il materiale era diventato così un contesto a sé stante, un insieme di elementi contingenti che possono stimolare l’immaginazione verso possibilità impreviste. Più trovavamo nuovi modi per piegare, rompere, allungare e deformare vari materiali allo scopo di creare forme autoportanti, più i risultati si allontanavano dall’architettura e confluivano nella pratica, ampliando il nostro raggio d’azione. Questa modalità diretta e iterativa riflette e rafforza l’impulso, che abbiamo avuto sin dal principio, non solo di cercare e fare la differenza, ma anche di fare la differenza per noi stessi.
Alla base delle nostre analisi riguardo la differenza ci sono un movimento e un cambiamento. Non ci soddisfa un mondo costruito che in qualche modo sia privo di senso e di significato e questo ci spinge a fare la differenza laddove ne troviamo l’opportunità. Si può fare la differenza sia nel proprio lavoro sia nel corso della ricerca e in risposta alle particolarità delle circostanze, perché ogni nuovo progetto è incluso nel contesto del nostro lavoro precedente, è parte della nostra continua trasformazione e, forse, ci aiuta persino a superare l’esitazione a scrivere e quindi a scoprire ciò che vale la pena di dire. L’atto di costruire, quando non è governato esclusivamente da informazioni generiche come troppo spesso accade, è caratterizzato da un elemento necessario di sorpresa e di piacere. È questa la cosa delicata che forse rischia di perdere la sua verità e la sua magia quando viene affidata al linguaggio. Noi crediamo nell’atto del costruire. Se riusciamo anche solo a trasmettere il piacere che proviamo nel fare architettura a coloro che questa architettura la vivono, allora, forse, abbiamo creato un senso e un significato; allora forse abbiamo fatto la differenza.
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