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La forma segue sempre la cortesia

Sebastián Irarrázaval

La forma segue sempre la cortesia
Scritto da Sebastián Irarrázaval -

Voglio cominciare con due storie che riguardano consapevolezza e scopo, nozioni alla base del titolo di questo saggio, “La forma segue sempre la cortesia”, che oggi poggiano su basi teoriche ed emotivamente instabili. Prima di raccontare le due storie, se posso anticipare una conclusione sull’orientamento che dovrebbe guidare oggi la nostra missione di architetti, direi che gli architetti non dovrebbero più seguire il vecchio detto «la forma segue sempre la funzione», ma piuttosto «la forma segue sempre la cortesia». Perché? Perché la cortesia è l’atteggiamento umano che ci permette di negoziare la presenza degli altri. La cortesia organizza e articola il nostro incontro con l’altro, con l’amato, l’avversario, il familiare e lo straniero. La cortesia ci insegna come gestire accoglienza e rifiuto. La cortesia ci insegna dove e quando non toccare e le modalità sottili del toccare. Quando siamo ospiti, la cortesia ci insegna come comportarci. La cortesia ci insegna a vedere oltre noi stessi e nell’infinita alterità degli altri. La cortesia insegna anche a tradurre i segnali degli altri. Al riguardo, possiamo affermare che essere un buon traduttore (e un buon architetto) è essere un perfetto anfitrione. Infine, la nozione di cortesia abbraccia altri concetti che citerò in questo saggio, come cura, convivenza, inclusione e co-immunità, idee che è più che necessario coltivare al giorno d’oggi.

Casa 2Y, Colico, Cile, 2013 © Felipe Díaz Contardo courtesy Sebastián Irarrázaval Arquitectos

Ecco, dunque, le storie:

Qualche anno fa ho tenuto due conferenze sulle costruzioni in legno, una in Sicilia e l’altra in Arkansas. Ho presentato gli stessi progetti, realizzati tutti in legno, ricevendo tuttavia riscontri differenti. In Sicilia, al termine della presentazione, una persona ha alzato la mano e ha cominciato a insultarmi per aver utilizzato il legno abbattendo migliaia di alberi. Ho cercato di calmare la sua collera, senza successo, spiegandogli che non avevo usato alberi autoctoni bensì tronchi raccolti; secondo lui, per validi motivi, non c’è alcuna differenza tra gli alberi che ancora vegetano e quelli caduti, poiché, a suo parere, entrambi sono specie viventi con lo stesso diritto di vivere. Mi sono sentito al pari di un insetto disgustoso, di una persona con indosso una pelliccia e come se gli edifici in legno di cui andavo tanto fiero fossero montagne di elefanti morti.

In Arkansas è accaduto il contrario. La presentazione si è svolta nell’ambito di un seminario accademico sulle costruzioni in legno ospitato dalla Facoltà di Architettura dell’Università dell’Arkansas e finanziato dall’Arkansas Timber Association. Secondo i conferenzieri, le costruzioni in legno sono l’unico modo per risolvere la crisi climatica. I dati hanno dimostrato chiaramente che l’industria edilizia è responsabile di una significativa percentuale di emissioni di anidride carbonica; che l’uso del legno durante il processo di costruzione le riduce e che, oltre a ciò, questo materiale è in grado di immagazzinare la CO2 prodotta altrimenti. L’assemblea sembrava in preda a un entusiasmo evangelizzatore, pronta ad annunciare la “buona novella” divina di questo materiale prescelto, non contaminato dal peccato originale (il cemento e l’acciaio sono peccatori) e munito della stessa capacità divina di rimuovere i peccati dell’uomo. Questo comportamento non era affatto strano in una cultura dove la religione è vitale. Tuttavia ero dubbioso e non mi sentivo a mio agio, perché fuori dall’auditorium c’erano circa 20 stand commerciali di operatori dell’industria del legno che animavano le pause caffè e le quote d’iscrizione erano piuttosto elevate. 

Casa Caterpillar, Lo Barnechea, Cile, 2012 courtesy Sebastián Irarrázaval Arquitectos

Per complicare ulteriormente le cose, devo ammettere che il territorio cileno, dove prospera l’economia forestale e da cui proviene tutto il legname per il mio edificio, è visto da alcuni gruppi radicali come la continuazione del processo di colonizzazione, da parte dello Stato cileno, dei Mapuche, i primi abitanti dei territori nel sud del paese. Diciamolo, è un bene per l’ambiente ma un male per le popolazioni locali. Ero molto confuso, come si può ben immaginare, e incerto su cosa fosse giusto e cosa sbagliato. Per via di questa ambivalenza morale, ho rifiutato di firmare un manifesto internazionale a favore delle costruzioni in legno. Devo dire che non sono stato l’unico.

Ho raccontato queste due storie per mettere in rilievo diversi punti: innanzitutto dobbiamo riconoscere che le nostre strategie e metodologie comportano decisioni e presupposti etici e che siamo responsabili delle nostre credenze, delle nostre convinzioni e dei nostri progetti. Pertanto, la consapevolezza è indispensabile per discernere il bene dal male. In secondo luogo, dobbiamo imparare a convivere con i sensi di colpa, in quanto, a prescindere da come formuliamo le nostre ipotesi, qualcuno ci biasimerà per le nostre azioni. Dopotutto in architettura, come nella vita, non c’è spazio per azioni completamente innocue o neutre. Dobbiamo semplicemente raggiungere un equilibrio, essere consapevoli dei nostri limiti e considerare che tutti gli esseri viventi combattono per la sopravvivenza (dagli esseri umani agli alberi) e che l’uomo, in gruppo o individualmente, è in grado di comportarsi bene e avere un impatto ambientale positivo. Per esempio, raccogliere gli alberi per costruire edifici e immagazzinarvi le emissioni di carbonio prodotte da altri è una buona azione. Se non consideriamo questo aspetto, tra 50 anni utilizzare il legno come materiale edilizio potrebbe essere considerato politicamente scorretto come lo è oggi indossare una pelliccia. E questo sarebbe senza dubbio un errore irrazionale e fatale.

Biblioteca pubblica di Constitución, Cile, 2015 © Felipe Díaz Contardo courtesy Sebastián Irarrázaval Arquitectos

Queste storie personali dimostrano quanto sia importante che a guidare le nostre azioni sia la consapevolezza, fondata su dati concreti e non unicamente su credenze romantiche, soggettive o su fedi irrefutabili (in questo caso, i diritti degli alberi), ma sulle conseguenze concrete di azioni concrete. Per esempio, è stato dimostrato che le costruzioni in legno riducono e immagazzinano le emissioni di carbonio e, armati di questa consapevolezza, siamo legittimati a dire di essere sulla strada giusta per salvaguardare la vita del pianeta, inclusa quella degli stessi alberi. Naturalmente si presenta un dilemma morale: alcuni alberi devono morire per proteggere la Terra, se continuiamo a crescere. Alcuni propongono di ridurre la nostra economia come unica soluzione alla crisi ambientale, ma questo è un altro discorso.

Alla luce di quanto detto, possiamo affermare che qualsiasi progetto è il prodotto delle opportunità e delle restrizioni poste dai seguenti fattori:

1. Il problema
2. Gli strumenti disponibili per risolverlo
3. Il senso dello scopo che indirizza, dirime e limita il loro utilizzo.

Nel primo punto, il problema, la sfida è evidente e legata al fatto che la sopravvivenza del pianeta è a doppio rischio, fisico e sociale. Di conseguenza l’urgenza ambientale comporta anche un’instabilità sociale, dal momento che sono condizioni interagenti. Tuttavia il cambiamento climatico è fonte di sfide economiche, di cambiamenti sociali e di un atteggiamento mentale che rappresentano opportunità per nuovi approcci alla progettazione. Per quanto riguarda il secondo punto – i nostri strumenti – essi sono sempre stati una serie di vocaboli (pareti, porte, pavimenti, tetti, finestre, ecc). Infine, per raggiungere lo scopo, il terzo punto, i mezzi a disposizione devono essere predisposti, organizzati secondo schemi o indirizzi sia etici sia estetici. Il modernismo seguiva il dogma coniato da Louis Sullivan, «la forma segue la funzione» ma forse ora sarebbe più appropriato dire «la forma segue la cortesia». A prescindere dal significato di quest’ultima affermazione, sappiamo che la forma non può più aderire a un dogma meccanicistico. Questo perché la metafora meccanica formulata dal modernismo non è più utile per capire e prefigurarsi l’unico mondo possibile in cui siamo confinati a vivere. Questo approccio non aiuta a comprendere i cambiamenti estremamente profondi nei gusti e nei valori e, fondamentalmente, le nuove forme del vivere sorte al giorno d’oggi, alcune delle quali legate alla cosiddetta eco-ansia. 

Padiglione Valparaiso, XIX Biennale di Architettura e Urbanistica del Cile, 2015 © Cristobal Palma courtesy Sebastián Irarrázaval Arquitectos

Secondo il filosofo spagnolo Eugenio Tras, questi cambiamenti nei gusti rappresentano il motivo per cui, nell’universo musicale, le “azioni” di Beethoven hanno perso valore mentre quelle di Mozart sono in rialzo. Oggi convincono meno le configurazioni rigide con solo due poli, bianco o nero, mentre si prediligono forme più ambigue, grigie e sfocate. Si è meno propensi a epopee “maschili” di conquista e più inclini a una narrativa “femminile” di attenzione; più aperti a considerare i confini come territori dove non ci sono più opposizioni binarie e reciprocamente esclusive. Questo pensiero inclusivo spiegherebbe per esempio i nuovi modi di nominare cose e situazioni che suggeriscono nuove realtà, come il verbo “co-abitare”, il quale spiega perché Berlino è oggi la città con la più alta biodiversità urbana del pianeta, maggiore persino delle zone rurali, dove le pratiche agricole basate sulla monocoltura l’hanno invece ridotta. Lo stesso discorso vale quando si parla di “abilità diverse” e non di “disabilità”. Nasce così un nuovo universo in cui le differenze vengono accettate e in cui coesistono abitudini cognitive diverse. La lingua è potere, dobbiamo tenerlo a mente.

Il credo meccanicistico «la forma segue la funzione» – ovvero l’utilizzo di una forma specifica per ciascuna funzione e significato, per esempio una strada solo per le auto, un viale solo per i pedoni, finestre solo per ammirare il paesaggio, finestre per consentire solo il passaggio della luce o dell’aria – va contro quanto appena detto. Le diverse configurazioni grammaticali per ogni attività e istituzione secondo il dogma «la forma segue la cortesia» suggeriscono l’inclusione sotto forma di coesistenza al posto dell’esclusione. I concetti di coesistenza e di cura sono fondamentali, basti pensare a ciò che viene pubblicato sulle riviste di architettura più autorevoli e indicizzate. 

Juan Luis Undurraga Integral Stimulation Center, complesso multifunzionale per bambini, Talagante, Cile, 2020 © Cristobal Palma courtesy of Sebastián Irarrázaval Arquitectos

Analizziamo prima la coesistenza, che viene valutata positivamente in quanto promotrice dell’interconnessione tra habitat, co-abitanti e consuetudini nel contesto delle dicotomie natura/città, esseri umani e non, naturale/artificiale. Primeggiano le piante anziché le macchine. Di conseguenza, le prime sono considerate oggi regine delle metafore, specie premonitrici che interagiscono con la Terra. Non sono un esperto del comportamento delle piante e non posso approfondire l’argomento senza rischiare di essere superficiale ma l’unica cosa che posso dire è che la coesistenza e la co-abitazione aprono la questione sulla comunicazione interculturale e, di conseguenza, sulla necessità della traduzione. Dal momento che vivere, in fondo, significa comunicare e che biodiversità significa diversità linguistica, la creazione di un valore simbolico deve necessariamente considerare la traduzione tra lingue diverse. Se vogliamo seriamente considerare la coesistenza come opportunità di arricchimento per una vita migliore, dobbiamo prevedere anche la traduzione. Dobbiamo infine chiederci – se supponiamo che non siano soltanto le specie viventi a comunicare ma anche gli oggetti inanimati – con chi dovrà comunicare l’architettura in un mondo post-umanista e come avverrà la transizione da una modalità all’altra. Al di là di questo, nuovi trend filosofici come l’ontologia orientata agli oggetti (OOO), si occupano della comunicazione di oggetti inanimati in un mondo in cui gli esseri umani non sono più – come diceva Heidegger – le uniche entità pensanti.

Questo pone nuove sfide per l’architettura che riguardano, tra l’altro, i processi di produzione simbolica di un’identità e di un senso di appartenenza. Chi sono i destinatari dei nostri progetti futuri? I nostri progetti dovranno parlare contemporaneamente tre lingue, ovvero quella degli esseri umani e di coloro che hanno abilità diverse, quella delle piante e quella delle macchine? Queste lingue sono percepibili visivamente o sono solo entità chimiche e quindi invisibili per noi? Presto ci sarà il bisogno di creare un corridoio ecologico per i conigli e uno per le volpi se vogliamo compiere la nostra missione etica in modo responsabile. Ci si aspetterà molto di più da noi se vogliamo evitare che l’opinione pubblica ci si scagli contro.

Juan Luis Undurraga Integral Stimulation Center, complesso multifunzionale per bambini, Talagante, Cile, 2020 © Cristobal Palma courtesy of Sebastián Irarrázaval Arquitectos

Il concetto di cura, d’altra parte, spesso alimentato da reazioni emotive a fatti catastrofici inconfutabili e dall’eco-ansia, allevia il nostro forte, e finora sconosciuto, senso di vulnerabilità. È generalmente riconosciuto che i rischi legati all’ansia aggravino le disuguaglianze sanitarie e sociali delle persone suscettibili a questo tipo di impatto psicologico. A provare questo senso di fragilità non sono soltanto, per esempio, gli atleti olimpionici, i quali, nel nome del benessere mentale e dell’autoconservazione, rinunciano al richiamo beethoveniano alla conquista a ogni costo. È una sensazione testimoniata anche dall’istituzione del Ministero della Felicità e del Ministero della Solitudine, nonchè dall’ideazione di strategie urbane per affrontare il senso di vulnerabilità attraverso le cosiddette politiche di assistenza, come quelle previste nel piano “Madrid città dell’assistenza”, che puntano a migliorare la qualità della vita degli abitanti attraverso semplici strategie, come la prevenzione della solitudine indesiderata, gli aiuti per superare i disagi quotidiani e le cure di fine vita. Questa fragilità si è ulteriormente accentuata di recente a causa della pandemia da Covid-19. La vulnerabilità ci ha reso consapevoli del fatto che il ruolo primario dell’architettura è quello di offrire immunità contro le malattie e la morte e che vivere insieme significa creare co-immunità, come sostiene Peter Sloterdijk. Questo concetto di comunità come mezzo di co-immunità implica dare priorità, nella nostra missione, all’autoconservazione fisica e mentale.

Per riassumere quanto appena esposto, vorrei dichiarare che l’affermazione «la forma segue la cortesia» è un appello alla consapevolezza. Innanzitutto, consapevolezza della nostra condizione di esseri definiti da limiti etici e tecnici, dove i primi definiscono la nostra conoscenza e le nostre azioni, i secondi le nostre sfere di immunità per l’autoconservazione. Oltre a questo bisogna trarre la conclusione che le azioni volte all’autoconservazione devono svolgersi entro i confini del corpo architettonico ed essere guidate dal concetto di cura. In questo modo noi architetti onoreremo e porteremo a termine la nostra missione con meno incertezze.

Scuola di design e istituto di studi urbanistici, Pontificia Università Cattolica del Cile, Santiago, Cile, 2010 © Cristobal Palma courtesy Sebastián Irarrázaval Arquitectos

Rimangono tuttavia degli interrogativi: dove guardare per individuare esempi di buone pratiche? Fino a dove dobbiamo spingerci in nome dell’innovazione? Dobbiamo imparare che in molti casi, se non in tutti, l’innovazione non deve essere vista come una novità ma come un recupero di modi trascurati, forse arcaici, di affrontare questioni vitali. In questo senso, ciò che è stato definito “rurale” rappresenta un ricco territorio di linee guida che invita a riscoprire le pratiche associate a valori come la virtù, la giustizia, la correttezza, l’onestà e l’adeguatezza.

Nei progetti del nostro studio che accompagnano questo articolo affrontiamo i temi della coesistenza e della cura. Nel contesto di una crescente vulnerabilità e della necessità di creare maggiore immunità e migliori comunità, tutti questi progetti considerano i perimetri dell’edificio come territorio di intervento predominante e cercano linee guida nel mondo rurale, con l’intento di essere – con più o meno successo – interventi specifici di un sito.

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