Un carattere tipico dell’architettura italiana, in definitiva la sua cifra, è la continuità. Continuità intesa in senso non ideologico, ma come naturale sforzo di relazionarsi sempre e comunque ad un proprio passato, possibilmente ad un passato non lontano, anteriore, facilmente riconoscibile. Attenzione, il termine continuità va messo sempre in relazione a un altro termine all’apparenza opposto: eclettismo.
L’architettura italiana è sin dai tempi di Camillo Boito eclettica e come tale propone un’offerta talmente variegata da sembrare indefinibile. Non è così, dietro il suo eclettismo appaiono infatti delle linee di sviluppo, dei nodi teorici e un impianto iconografico le cui ragioni non sono casuali, ma si riferiscono a quella continuità di cui parlavamo prima. In altre parole se l’eclettismo tende a smembrare la nostra architettura, la continuità si oppone ad esso riconcedendogli una certa organicità. Questo doppio andamento può essere riscontrato anche con maggiore chiarezza nell’architettura italiana contemporanea.
Prendiamo il caso di Mario Cucinella. Egli ha avuto due maestri di non poco conto: Giancarlo De Carlo e Renzo Piano. Due personaggi con non poche affinità, sebbene appartenenti a due generazioni diverse. Ad unirli una concezione che oseremmo affermare ideologica del fare architettura afferente al pensiero riformatore, ovvero né conservatore e nemmeno rivoluzionario. Un pensiero fondato sul principio di realtà, ma di una realtà considerata sempre emendabile, ovvero disponibile ad essere migliorata. Questo pensiero ha in Italia una lunga tradizione: pensiamo al liberalismo crociano, al Partito d’Azione, a quello Radicale e a molte altre espressioni, presenti anche nel mondo cattolico, che continuano a impegnarsi per delle riforme che un paese tendenzialmente conservatore, o meglio...
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