Le realtà emerse dagli eventi globali legati alla pandemia ci hanno offerto l’opportunità di riesaminare le possibilità d’intervento dell’architettura. Non possiamo più ignorare gli effetti degli edifici sul degrado ambientale, né possiamo negare il nostro storico adeguamento alle strutture di potere. C’è stato un cambiamento drastico di coscienza. Ripensando al XX secolo, è sconcertante dover riconoscere come sia stato scarso il dibattito architettonico all’interno del mondo accademico e come i media fossero totalmente concentrati nell’esaltare la figura dell’archistar, sostenendo al contempo il sistema capitalistico con superficialità, senza considerarne gli effetti. Eppure, nonostante questa ritrovata consapevolezza, la nostra raison d’être è tuttora poco chiara. Rimane aperta la questione: qual è il percorso da seguire?
Innanzitutto, ritengo necessaria una certa dose di umiltà. Le questioni ambientali e socioeconomiche erano già oggetto di dibattiti da parte nostra prima del 2020. Molti hanno costruito la propria carriera ponendo il riscaldamento globale e l’ineguaglianza sociale al centro della pratica progettuale, convinti che l’obiettivo della progettazione dovesse essere quello di risolvere le sfide globali del nostro tempo. Nonostante le buone intenzioni, questo approccio rappresenta un ulteriore tentativo di associare la figura dell’architetto a quella del demiurgo. Anche se concordiamo tutti sul fatto che gli architetti (tutti i cittadini, in realtà) abbiano il compito, necessario e urgente, di affrontare queste problematiche a più livelli, non è chiaro se l’architettura sia riuscita ad avere un impatto significativo sulla gestione di queste sfide. La verità è che questo approccio progettuale diretto ad analizzare una situazione cercando di risolverla – con il suo sottofondo moralistico – è stato ampiamente utilizzato negli ultimi cent’anni, con scarsi effetti sul mondo circostante. Secondo Mark Wigley noi architetti tendiamo a ingigantire la nostra importanza nella società: non potrei essere più d’accordo. Nonostante la nostra disciplina sia sempre stata legata alla politica di governo, il suo effettivo potere in realtà è minimo. Nel migliore dei casi, la capacità dell’architetto di risolvere le sfide globali del nostro tempo è limitata; fingere che non sia così è probabilmente ancora più nocivo. Questo è evidente soprattutto se si considera l’effetto del settore edilizio sul consumo energetico. Le scelte che noi architetti possiamo operare sono limitate in rapporto all’enorme impatto delle nuove normative sulla riduzione dell’impronta ambientale degli edifici, a partire dall’energia grigia incorporata nelle costruzioni.
D’altra parte gli architetti sono riluttanti nel richiedere ulteriori restrizioni, anzi spesso vi si oppongono. Con questo non intendo sminuire il lavoro di chi si sta impegnando per ridurre l’impronta ambientale degli edifici. La recente pubblicazione Biogenic House Sections curata dallo studio Lewis.Tsurumaki.Lewis offre numerosi esempi da cui trarre insegnamenti e da utilizzare come prove di fattibilità per ciò che dovrebbe essere codificato a livello legislativo. Accettare i limiti del nostro potere e riconoscere l’essenza di ciò che facciamo potrebbe esserci utile. L’architettura, come la composizione musicale, la scrittura creativa o il cinema, è una pratica creativa in grado di generare cultura. Questa capacità unica di concepire e di realizzare alternative al mondo che ci circonda è una forma di produzione culturale da non sottovalutare: è questo che le conferisce la sua straordinaria vitalità. Il rapporto tra architettura e produzione culturale è complesso. In quanto pratica creativa, l’architettura è libera di formulare ipotesi ma, in quanto disciplina concreta, deve fare i conti con la realtà quotidiana. A differenza del cinema o della musica, nella composizione architettonica interferiscono condizionamenti esterni. Gli elementi che esercitano pressione non sono legati tanto alla disciplina in sé quanto al processo costruttivo (ordinanze di zonizzazione sempre diverse, budget inadeguati, accesso discontinuo ai materiali, esigenze della committenza, interessi economici, ecc). Un lungo elenco di contingenze che condizionano il risultato sottraendo valore al processo creativo del fare architettura. Rimane il fatto che noi architetti immaginiamo ciò che ancora non esiste, gli diamo forma e lo trasformiamo in realtà. Ogni progetto è un esempio di ciò che è possibile e un superamento critico di ciò che già esiste. Non siamo uno specchio della società come dicono in molti. Diamo forma a ciò che potrebbe essere. Il nostro “superpotere” consiste nell’utilizzare la progettazione come strumento di indagine critica che ci indirizza verso un nuovo modo di osservare il mondo e ci consente di dare vita a nuove dimensioni della realtà. Estendere le possibilità di una pratica creativa al di fuori delle strutture convenzionali di potere è uno stimolo per nuove forme di esercizio della professione e per una revisione della relazione tra architetto e committente, tra struttura architettonica e identità, tra forma e programma. Mentre cercavo esempi da includere in questo articolo mi sono resa conto che non esiste un unico percorso da intraprendere, le strategie possibili sono diverse.
Le ambizioni anti-eroiche dello studio Current Interests possono servire da modello per nuove modalità di pratica concreta. Il loro progetto Silverhouse Studio, per esempio, sembra quasi banale a un primo sguardo ma si traduce rapidamente in un evidente contrasto con le forze sulle quali l’architettura non ha modo di agire. Questo intervento di ristrutturazione e ampliamento è stato progettato per un artista statunitense di origine messicana che da anni vive a Echo Park, quartiere latino-americano di Los Angeles soggetto a una rapida trasformazione e gentrificazione, il che rappresenta un paradosso significativo: in questa comunità, conosciuta prima della Seconda guerra mondiale per essere luogo di ritrovo dei membri del partito comunista, il prezzo medio di un’abitazione ha ormai raggiunto il milione di dollari. Current Interests interviene qui senza sentimenti nostalgici, fornendo un’identità alternativa concreta, non curandosi del valore di rivendita. Il colore delle lastre in calcestruzzo si avvicina al nero, le vetrate sono riflettenti e colorate in contrasto con il rivestimento isolante a vista color argento. Rifacendosi alle parole del poeta e filosofo Édouard Glissant, che rivendicava «il diritto di ognuno all’opacità», Current Interests riformula gli ideali di privacy delle zone periferiche con una serie di strategie materiali, che «ravvivano il valore normativo degli immobili».
Se il lavoro di studi emergenti come Current Interests punta su un’arte del costruire alternativa allo status quo, un altro ambito potenzialmente proficuo da riconsiderare è la responsabilità dell’architetto nella distribuzione degli spazi all’interno di un edificio. È comunemente riconosciuto che soddisfare le esigenze programmatiche del committente rientri nel nostro lavoro. Anche se molti ritengono che ciò faccia parte della routine professionale, dobbiamo considerare che è proprio nella configurazione degli spazi all’interno di un edificio – istituzionale o privato – che l’architetto ha maggiore possibilità di incidere. Robin Evans lo dimostra nel suo saggio Figures, Doors and Passages, in cui storicizza lo spazio destinato all’ingresso come invenzione che consolidò la stratificazione delle classi sociali nell’Inghilterra del XVII secolo. Dieci anni prima di lui, Alan Calhoun affermava in Typology and Design Method che la manipolazione tipologica è uno degli strumenti più potenti di cui dispone l’architetto per attuare un cambiamento. Un’attenta lettura del lavoro di Preston Scott Cohen, noto per le sue complesse geometrie, può aiutarci a chiarire questo punto. Prendiamo il recente progetto per la congregazione Beth Shalom: la forma ovoidale dell’edificio è insolita per le sinagoghe, tipicamente rettangolari, in cui la congregazione è rivolta in avanti in direzione del bimah. Questa tipologia edilizia in America ha sempre dovuto far fronte all’affluenza variabile dei fedeli, più elevata durante le festività principali e minore per la celebrazione settimanale dello Shabbat; di conseguenza la maggior parte degli spazi sono o troppo piccoli nel primo caso, o troppo grandi nel secondo. Per questo motivo i santuari ricorrono spesso a sale multiuso adiacenti, il che comporta la perdita della sacralità del luogo, con l’impressione di trovarsi in una sorta di centro congressi. Se consideriamo le pressioni a cui è sottoposta la comunità ebraica nell’attuale clima politico statunitense, diventa evidente quanto sia di primaria importanza la questione dell’identità ebraica. Progettando il santuario come una serie di anelli sovrapposti, Cohen ha elaborato una soluzione alternativa in cui un unico spazio può sembrare al contempo intimo per lo Shabbat e di grande apertura per le festività principali. Nel primo caso la forma ovoidale permette alla congregazione di concentrarsi su sé stessa, con il rabbino al centro; nel secondo caso, la liturgia avviene sul bimah e le sedute sono rivolte verso questo pulpito, ma permane comunque il senso di sentirsi parte della comunità grazie alla forma avvolgente della struttura.
La balconata, destinata storicamente alle donne, rappresenta un’espansione dello spazio accogliendo le persone che desiderano assistere ai riti con minore partecipazione. Il progetto coincide con una situazione paradossale in America: a fronte di un calo generale del numero delle sinagoghe, si registra un aumento dei fedeli in occasione dello Shabbat. Il nuovo edificio, pur profondamente radicato nelle tradizioni culturali, offre un’alternativa a una tipologia edilizia ormai consolidata, crea una nuova esperienza ed è una dimostrazione della possibilità di innovare. Questo genere di reinvenzione delle nostre realtà istituzionali attraverso nuovi paradigmi spaziali è molto promettente.
Affinché queste tattiche possano avere un maggiore impatto, penso sia necessario ripensare al rapporto tra architetto e committenza e attuare strategie progettuali che da tempo fanno parte di progetti architettonici dialettici. Dobbiamo sfatare il mito dell’architetto “al servizio” del cliente e costruire un modello diverso. Progetti speculativi come Promised Air, pensato da Atelier Office per la città di Detroit, non possono essere realizzati nell’ambito di una tradizionale relazione tra cliente e architetto. Commissionato dal padiglione americano della Biennale Architettura 2016 (di cui sono stata curatrice assieme a Cynthia Davidson), Promised Air rappresenta una forte critica alla correlazione tra etnie, status socioeconomico e degrado ambientale di Detroit. Nonostante non abbia ricevuto molte attenzioni a Venezia e sia stato a suo tempo ignorato completamente dai media di settore, le alternative che propone sono diventate negli anni sempre più pertinenti. Robert Fishman ha scritto: «La capacità di un progetto speculativo di rendere visibili (enfasi dell’autore, non mia) queste possibilità altrimenti nascoste, probabilmente lo rende più reale (ibid.) dei progetti che si limitano ad accettare e quindi a rafforzare i limiti del presente».
Cosa succederebbe se concepissimo un tipo di pratica architettonica in cui il progetto dialettico porta a una vera trasformazione del mondo costruito? Alcuni progetti si indirizzano già verso questo obiettivo. La città di New York ha emesso un bando per la creazione di una struttura destinata a eventi culturali in un’area a uso pubblico, a cui Diller Scofidio + Renfro ha risposto ideando una nuova tipologia edilizia che prevede la possibilità di estendere o contrarre la struttura per accogliere nuove forme di produzione culturale. Se ne è scritto e parlato molto; ciò di cui si parla poco – e che rappresenta invece un fatto estremamente significativo – è che inizialmente il progetto non identificava una precisa “committenza”. Non c’era un’istituzione a dettarne a priori il programma o la forma. Anzi, è stato il concept dell’edificio a fare da catalizzatore esercitando l’influenza determinante sull’istituzione non profit che ora lo gestisce e che porta lo stesso nome: The Shed (in precedenza conosciuta come Culture Shed). Durante la fase progettuale, la concezione dell’edificio è stata criticata da alcuni membri del Manhattan Community Board 4, secondo i quali quando la copertura retrattile sarebbe stata chiusa, la comunità avrebbe perso migliaia di metri quadri di spazio. A posteriori si può dire che queste critiche erano fuori luogo. La straordinaria flessibilità dell’edificio (un prodigio tecnico e architettonico) è ciò che induce la diversità artistica generata. Questa elasticità consente inoltre di ridurre drasticamente il fabbisogno di riscaldamento e raffrescamento quando gli spazi non vengono utilizzati: un’intelligente strategia di efficienza energetica. Senza l’indipendenza istituzionale di The Shed, il progetto avrebbe potuto assumere una forma completamente diversa e, virtualmente, perdere la sua vitalità culturale.
Di recente il mio studio è stato invitato a collaborare con Stoss Landscape Urbanism a un progetto di riqualificazione dell’area di Dallas che comprende Dealey Plaza (dove è stato assassinato John F. Kennedy), una porzione di un ampio sottopasso conosciuto come “Triple underpass” e Martyr’s Park, che diventerà un memoriale alle vittime della violenza razziale. Il progetto è stato commissionato da Mark Lamster per conto del Dallas Morning News. Nell’edizione domenicale del quotidiano, egli ha riferito che l’intento era quello di «suggerire una possibile soluzione e avviare un dibattito su ciò che potrebbe essere». Il momento è più che appropriato: gli Stati Uniti sono attraversati da profonde divisioni politiche e culturali e il dibattito pubblico va sempre più riducendosi. La nostra strategia propone la chiusura al traffico veicolare del tratto di strada dove è stato ucciso Kennedy e la creazione di uno spazio pubblico sopraelevato rispetto al sottopasso, di collegamento con Martyr’s Park. Quest’area servirà come luogo di incontro e riflessione, offrendo una vista su Dealey Plaza e sulla città; abbiamo anche previsto un boschetto con funzione commemorativa che, oltre a fornire ombra, presenta un richiamo alla natura. Abbiamo pensato di non riallacciarci alle tecniche convenzionali utilizzate per i monumenti commemorativi e abbiamo ipotizzato che fosse lo spazio pubblico a offrire il contesto per occasioni di apprendimento, mettendo in comunicazione le istituzioni con spazi civici significativi per inquadrare meglio le storie che essi raccontano. Nonostante si tratti di un progetto speculativo, abbiamo sviluppato una proposta estremamente dettagliata in cui la specificità dei materiali ha offerto nuovi modi di praticare la narrazione storica e il ricordo. Qui non ci sono distinzioni tra progettazione architettonica e paesaggistica. Gli alberi e le colonne, per esempio, sono leggermente inclinati, volendo alludere a una sensazione di caducità. Chris Reed, partner fondatore di Stoss, descrive così il progetto: «Questo non è un luogo qualunque. Volevamo prendere coscienza dei fatti che vi erano avvenuti e non fingere che siano superati». Man mano che cresceranno, gli alberi si auto-correggeranno e si allungheranno verso l’alto trasmettendo un senso di speranza per il futuro.
Tutti i progetti citati racchiudono tantissime strategie e ci offrono una risposta alla domanda di come conviene procedere. Per quanto mi riguarda, mi interessano le loro possibilità combinatorie e il loro potenziale di trasformazione della pratica progettuale. È arrivato per noi il momento di impegnarci e partecipare a dibattiti civici riguardanti gli ambienti pubblici e privati che progettiamo in quanto essi contribuiscono a modellare la società in cui viviamo.
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