«Provare sempre. Fallire sempre. Non importa. Riprovare. Fallire ancora. Fallire meglio.»
Samuel Beckett, Worstward Ho! (Peggio tutta)
Nella nostra professione, la sperimentazione si basa sulla convinzione che l’intuizione, l’esplorazione e l’immaginazione siano maggiormente stimolate nel realizzare concretamente le cose; queste, a loro volta, ci suggeriscono come procedere manifestando la loro essenza. La sperimentazione si basa anche sulla nostra convinzione che l’architettura possa autogenerare le proprie forme di conoscenza ed esperienza e che essa possa progredire soltanto sfidando lo status quo, cercando nuovi metodi di produzione, di trasformazione dei materiali e di sviluppo di tecniche volte a realizzare nuove modalità spaziali. La sperimentazione è un procedere per tentativi ed errori, fallimenti e successi; ha bisogno di un proprio ambito che non dipenda da esigenze quotidiane, quali scadenze o budget, e che necessiti di un pragmatismo di base.
La strategia del nostro studio può essere rappresentata da un semplice triangolo equilatero, in cui ogni vertice rappresenta un’area operativa primaria: ricerca, insegnamento e pratica. Ognuna si concentra su un tema specifico e ha propri confini, eppure tutte si influenzano a vicenda; ognuna è definita dalla sua indipendenza e dai suoi punti di contatto.
Dove avviene la sperimentazione? è un processo che necessita di uno spazio di lavoro che consenta il puro piacere di provare; e, per poterlo fare, bisogna affrancarsi dalle limitazioni commerciali o accademiche. In questo spazio vengono messi in atto gli esperimenti per verificare se le ipotesi siano praticabili o meno, capire la funzione di una soluzione e se possa essere utilizzata in architettura o in altri settori. I processi che guidano la ricerca non sono lineari o cronologici, bensì cumulativi, e scaturiscono dall’istinto di conoscenza ovvero dal desiderio di verificare una premessa. È un processo additivo. Alla base della nostra ricerca ci sono tecnologie, strumenti e materiali emergenti. Non ci interessa avere uno stile. Ci concentriamo piuttosto sull’approccio che parte dalla ricerca sperimentale. Come dice Regine Leibinger: «Kein Stil, sondern Haltung (non uno stile ma un atteggiamento, ndr)».
La sperimentazione ovviamente può avvenire spontaneamente, alcuni format o luoghi però contribuiscono a definirla, o a supportarla. Mostre e biennali offrono occasioni temporanee per presentare le ricerche dando visibilità alla sperimentazione in un pubblico contesto; gli ambienti accademici dispongono spesso di strutture versatili e polivalenti. Ma l’avvio, il punto da cui prendere ispirazione, è il blocco degli schizzi dell’architetto; è questo archivio di intuizioni, di idee e di riflessioni che crea le premesse per un’indagine. Nonostante l’attrattiva del disegno digitale, lo schizzo è il testimone dell’idea che non ha ancora preso forma, un suo frammento, un abbozzo. È l’innesco che può dare adito a ulteriori approfondimenti. È il punto di partenza.
Al di là di questi luoghi che accolgono ed espongono, lo spazio effettivo dove attuare la sperimentazione è molto vario: un’officina, uno studio, una fabbrica o un garage. Essa può avvenire in tutti gli ambiti possibili, i “Maker Space”, adatti al dialogo tra i collaboratori, oltre all’interno della stessa produzione architettonica o in parallelo a essa (nel settore automotive, delle macchine utensili, della ceramica, del vetro o del legno, ecc). La prototipazione permette di migliorare una forma nel tempo e di comprenderne le caratteristiche performative (cosa può fare) e quelle estetiche (con quali effetti). La ricerca di luoghi dove lavorare ed esporre avviene contestualmente al concetto di generare opzioni. In studio abbiamo adottato un mantra chiamato “Revolutions of choice”. Per noi significa che la sperimentazione e il confronto delle versioni (versioning) producono un archivio di opzioni che possono essere adottate (o meno), come sfida al catalogo edilizio standard. Gli architetti possono decidere i componenti, gli elementi e le strutture fondamentali che costituiscono i loro edifici anziché affidarsi a prodotti standard scelti dai cataloghi del settore; in questo modo si crea una sorta di coerenza interna tra l’architettura e la sua definizione fisica. L’installazione architettonica offre un format espositivo, produttivo alla sperimentazione. Diversamente dai modelli e dai disegni del progetto architettonico, le installazioni non rappresentano la realtà architettonica, ma ne producono una, che è fisica ed esperienziale, a grandezza naturale, al contempo strutturale e spaziale. In sintesi, questa realtà è un evento architettonico che ha sostituito gli artefatti rappresentativi come metodo di sperimentazione e di esposizione.
Il padiglione rientra in una tipologia edilizia particolare che continua a essere utilizzata per la sperimentazione, in relazione sia alla storia dell’architettura sia alla nostra attività. Non dovendo sottostare a vincoli quali permanenza, utilità, dimensionalità o performance, il padiglione facilita lo sviluppo di idee più flessibili circa struttura, forma o spazio, rispetto a tipologie architettoniche convenzionali. Un padiglione solitamente è limitato per quanto riguarda dimensioni, finalità, budget e funzioni; la sua collocazione è spesso temporanea. Date le dimensioni e la finalità, il padiglione si interpone tra la sperimentazione di materiali e i progetti edilizi più complessi; può inoltre avvalorare una tesi, senza limiti di permanenza o assoluta fedeltà architettonica. Per noi architetti questa tipologia edilizia è un luogo finalizzato alla ricerca produttiva e durevole.
La sperimentazione privilegia il processo rispetto all’esecuzione. Il processo, a sua volta, favorisce una pluralità di versioni e si presenta come un percorso di esplorazione trasparente e flessibile che evidenzia il rapporto tra l’elaborazione concettuale e la realizzazione nelle sue trasformazioni. Mentre il procedimento digitale è ostativo e tende a ignorare il processo, l’agire fisico e sequenziale preferisce mostrare i passaggi i quali, a loro volta, forniscono informazioni alla fase successiva. È un processo cumulativo che produce insiemi che in un secondo momento possono essere ripresi e valutati.
Per noi sperimentare vuol dire produrre, archiviare vuol dire collezionare, classificare e immagazzinare quello che viene prodotto. L’archiviazione consiste in un’organizzazione sequenziale o tipologica. Qual è il valore della sperimentazione? Quale il suo contesto? I nostri archivi sostituiscono i cataloghi edilizi standard d’un tempo e fungono da materiale di riferimento interno. I risultati dei nostri esperimenti vengono catalogati in una serie di “atlanti” (Atlas of Fabrication, Bricolage Bricoleur, Revolutions of Choice), dove evidenziamo il processo che sottende al nostro lavoro, i nostri progetti in corso d’opera, e non edifici completati. Questi cataloghi, veloci ed economici da produrre, sono manuali che spiegano come fare le cose, dando più importanza al processo e al fare informato; si basano sul credo che la conoscenza possa essere immagazzinata e condivisa. Anche l’archiviazione, oltre alla redazione di cataloghi o atlanti, è un’attività manuale: conserviamo il nostro lavoro, il materiale, i campioni, gli esperimenti, le installazioni e i modelli per catalogarli e poterli recuperare successivamente. Proprio in virtù della realizzazione di tale archivio, gli elementi di conoscenza raccolti ci consentono di concepire e costruire edifici attraverso sistemi autogenerati.
L’archiviazione attiva è un processo in divenire che offre l’opportunità di creare un materiale da esplorare, da catalogare e dargli così un significato compiuto. L’invito a un’esposizione personale presso la Haus am Waldsee a Berlino ci ha dato l’occasione di inquadrare il nostro lavoro nella cornice di una visione antologica (non)retrospettiva. “Non”, nel senso che erano fermoimmagini e frammenti di un processo che continua ad adattarsi, modificarsi ed evolvere.
Nel 2020 siamo stati invitati a esporre il nostro lavoro alla Haus am Waldsee. Abbiamo selezionato una serie di materiali d’archivio – modelli, installazioni e manufatti – che prima di questa mostra erano ammassati in un grande magazzino. Il fatto che sia stata organizzata durante il lockdown da Covid-19 del 2020 non ha rappresentato per noi uno svantaggio: abbiamo potuto esporre diversi lavori in modo esteso (la spedizione altrove sarebbe stata troppo costosa, data la grandezza e la tipologia) trasportandoli semplicemente dall’altra parte della città. La mostra ha offerto una visione approfondita del processo di archiviazione attiva ed è stata la dimostrazione del rapporto tra la ricerca e la rilevanza di un suo uso futuro. Per mettere ulteriormente in luce questa tipologia di archiviazione, le opere sono state esposte sia su scaffali industriali all’interno degli spazi espositivi dell’edificio, in precedenza una villa, sia nel giardino come elementi a sé stanti. Gli oggetti, contrassegnati e catalogati, formano una collezione di campioni di lavoro interfacciati. Mentre l’archiviazione attiva è un processo in continua evoluzione, mostre come questa offrono una selezione di lavori che evidenziano il valore e il potenziale di questa attività e dell’importanza di una consultazione continua come metodologia efficace di lavoro. L’esposizione alla Haus am Waldsee ha inquadrato il nostro approccio critico all’architettura definendolo “un catalogo di idee”.
Nonostante la sperimentazione guardi spesso avanti, alla ricerca di nuove possibilità in un futuro imprevedibile e in continuo divenire, anche la storia offre insegnamenti e metodi che alimentano il nostro approccio alla sperimentazione. Artisti come Donald Judd e Richard Serra, i cui lavori sono in bilico tra arte e architettura per forma e idee, hanno mosso precise critiche agli architetti, sul modo in cui praticano, sui luoghi in cui realizzano i loro progetti e su come si approcciano alla creazione di spazi. Questi rilievi sono stati fondamentali per il nostro lavoro e li abbiamo sempre considerati come sfide da affrontare. Nei suoi saggi Judd dà una definizione precisa dello spazio (la distanza tra due pietre); Serra invece ricorre al concetto di parallasse, di movimento nello spazio. Entrambe le teorie sono state punti di riferimento capaci di offrire a noi architetti la possibilità di orientare il nostro lavoro. A queste critiche dirette alla nostra professione affianchiamo progetti storici: alcuni sono architetture incomplete, altri – nel caso di artisti – non hanno precedenti riguardo la loro realizzabilità strutturale e architettonica. Le cupole geodetiche e le tensostrutture di Buckminster Fuller, per esempio, sono state realizzate, a scale diverse e in contesti diversi (anche New York), non proponendosi come soluzioni architettoniche del tutto risolte ma in quanto dimostrazioni di una tecnica precisa. A noi interessa ripercorrere questi progetti con l’aggiunta della complessità della risoluzione architettonica, considerando specificità del sito, involucro, programma, capienza, piani orizzontali e superfici; ovvero sfruttare la complessità architettonica per testare la fattibilità di tali sistemi.
Altri artisti-ingegneri come Gego o León Ferrari hanno realizzato sculture molto suggestive che possono essere considerate vere e proprie proposte architettoniche. Noi intendiamo considerare queste idee come progetti architettonici, tenendo a mente le complessità sopra citate. Così, mentre la visione storica continua ad avere un impatto sull’educazione e sulla concettualizzazione dell’architettura, i progetti incompleti (come li definiamo noi) offrono esempi completamente diversi, al di fuori della storia ufficiale dell’architettura. Gli esperimenti di architetti-ingegneri come Frei Otto o Yona Friedman (la cui Summer House alla Serpentine Gallery del 2016 affiancava la nostra) sono stati concepiti come opere interstrutturali, spesso inserite come fotomontaggi in vari contesti e a scala diversa. Questi esperimenti in genere non sono risolti da un punto di vista architettonico ma sono interessanti in quanto, essendo modelli incompleti, consentono possibili risoluzioni a completamento dell’architettura.
Per noi i precedenti storici più interessanti, nello stato in cui si trovano, sono i progetti incompleti o alternativi che offrono gli artisti. In questo modo la storia è un riferimento per la sperimentazione, una guida con cui guardare al futuro e contemporaneamente al passato.
Altrettanto importante per la nostra analisi storica è il nostro lavoro con gli ingegneri strutturisti. Già durante i primi anni dello studio abbiamo compreso il ruolo importante che giocava una tale collaborazione. Abbiamo sempre considerato l’ingegneria non in quanto strumento di appoggio all’architettura, ma come sua parte fondamentale, in cui entrambi i concetti, della struttura e dell’architettura, possono formare un tutt’uno. La struttura può collocare nello spazio un’architettura, diventando un insieme di elementi leggibili e compatibili. Questa visione inoltre coincide con l’idea che la sperimentazione tragga vantaggio dalle nuove tecniche o strategie sviluppate da altre figure, come gli ingegneri, e che l’architettura possa evolvere solo se spinta da tali possibilità.
Ingegneri come Werner Sobek, Thorsten Helbig, Jürg Conzett, Mike Schlaich o Transsolar hanno sviluppato tecniche di ingegneria innovative come l’infra-lightweight concrete (pannelli leggeri di calcestruzzo – Schlaich), il gradient concrete (Sobek), la struttura come spazio (Conzett) e tecniche edilizie sostenibili (Transsolar). Il nostro approccio prevede l’impiego di questi metodi con lo scopo di ottenere risultati molto diversi rispetto a un approccio prettamente architettonico. Ci chiediamo: come può l’ingegneria alimentare l’architettura?
Ovviamente anche questo comparto ha una propria storia. Utilizzando le nuove tecnologie (digitali o parametriche), riconsideriamo alcuni modelli strutturali – come la struttura reticolare degli anni 1950 o la trave Vierendeel del 1896 – come sistemi ingegneristici da rivedere secondo configurazioni migliori, in digitale e con nuovi materiali.
Lo studio dei materiali è un altro aspetto fondamentale del nostro lavoro. Sperimentare significava lavorare con materiali specifici: come i più duraturi (legno, acciaio o calcestruzzo), i più nuovi o gli ibridi. La trasformazione della forma di un materiale tramite l’uso di utensili può portare a un risultato architettonico e spesso condurre in direzioni inaspettate.
Questo è stato un concetto fondamentale della nostra educazione all’Università di Harvard. «La mediazione tra materialità e ideazione rende esplicita nel modo più assoluto l’influenza esercitata sui lavori di Barkow Leibinger dallo spirito di Rafael Moneo, loro professore alla Graduate School of Design – scrive George Wagner –. Elemento cruciale dell’insegnamento di Moneo era la convinzione che le idee e i materiali dell’architettura avessero un legame indissolubile. In altre parole, l’architettura è una sostanza fisica e lo scopo della concettualizzazione è capire come trattare un dato materiale».
Generalmente l’architettura viene concepita in maniera opposta (prima come forma, poi come costruzione fatta di materiali). Gli strumenti o le tecniche che scegliamo (tagliare, gettare, impilare, intrecciare, etc) determinano la trasformazione della forma di un materiale. Questa affermazione è fondamentale per capire come può iniziare la sperimentazione.
La sperimentazione fa parte anche della nostra attività come docenti. Durante la pandemia il lavoro con gli studenti, sotto forma di tirocini, è diventato ancora più interessante. Questa modalità ha offerto occasioni di collaborazione e mostrato loro il concetto di “sporcarsi le mani”, oltre a essere molto più produttivo dell’insegnamento online.
In realtà non insegniamo nulla. Facciamo domande, di solito due o tre a semestre, le cui risposte provengono dal lavoro degli studenti. Non insegniamo le tecniche o la storia, anche se ci assicuriamo che gli studenti siano informati su entrambe. Proprio per questo motivo l’insegnamento rappresenta una piattaforma ideale per la ricerca, la sperimentazione e l’esplorazione. Meno presupposti ci sono, meglio è.
La sperimentazione non ha stile, non è coerente, non è mai uguale, e questo suffraga l’idea che l’architettura possa essere originale, autentica, nuova. Essa ci chiede di essere ingenui, di fare le cose sbagliando, di avanzare alla cieca. È credere che l’identità specifica di una professione possa essere definita soltanto da questo tipo di attività. Significa anche che una professione critica è tale quando si trasforma, si adatta, cambia costantemente a seconda di nuove scoperte e possibilità. Questa curiosità rende il nostro lavoro – e il luogo dove lo svolgiamo – vitale, emozionante e “a risposta aperta”; un forum in cui l’architettura è considerata un positivo ed efficace agente di cambiamento e dove l’immaginazione può migliorare il mondo in cui viviamo.
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