Va di moda un termine nelle upper class inglesi: tuscanization. La Toscana di oggi, almeno nell’immaginario internazionale, è infatti diventata un eden fatto di tradizioni rispettate, cura del territorio, buon cibo e bellezza, naturale e culturale. Vero o falso?
Più vero che falso certamente; vero anche che tutto ciò che diventa un branding inevitabilmente si inflaziona, perdendo inesorabilmente vitalità. Per fortuna la toscanizzazione è andata oltre i suoi naturali confini, estendendosi in una Puglia che sempre più le fa concorrenza e in un’Umbria che rispetto alla solare Toscana appare più eremitica. Il primo a capire quelle che saranno le ragioni della toscanizzazione è stato Guido Piovene che aveva compreso che il segreto della malia era celato in un amovibile fondo rurale che generava una parsimonia per nulla costrittiva, ma parca, senza sprechi, concentrata nella ricerca di un equilibrio tra terra e prodotto umano, tra zolla e mattone. D’altronde la grande pittura toscana tardo medioevale ci racconta proprio di ciò, di una grazia che nasce non dall’alto, ma dal quotidiano: un quotidiano reinventato, anzi sublimato in un’atmosfera che è come se ci ancorasse ben bene i piedi sulla terra per vedere un cielo che paradossalmente riflette la terra stessa. Sto parafrasando le pagine che un toscano doc come Cesare Brandi dedicava alla sua terra. Brandi insisteva sul come il Rinascimento, abbandonata Firenze e trasferitosi a Roma, avesse perso quasi per un peccato di superbia la sua magia, fosse diventato stile, anzi stile di potere. Probabilmente aveva ragione o sicuramente in Toscana si continua a pensare che avesse ragione.
Pietro Carlo Pellegrini da tempo tiene ben saldi i piedi sulla sua terra, su quella quintessenza della toscanizzazione che è Lucca. Discorrendo con lui mi fa notare come il segno caratterizzante la...
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