Una delle cose che maggiormente ci attraggono nell’architettura contemporanea cilena è la sua ineludibile matrice europea. Un linguaggio di forme e di riferimenti che fanno parte della nostra cultura, quella nata oramai un secolo fa in nome del razionalismo, che ha ripudiato l’estetica decorativa e che ha portato ai capolavori assoluti del primo Mies van der Rohe, per intenderci, che qui, sulla costa meridionale del Pacifico sudamericano, hanno saputo innovarsi e svilupparsi con una purezza che continua ad estasiare. È forse successo quello che accade nella storia degli idiomi: quando un gruppo linguistico si sposta e si disconnette dagli altri parlanti il proprio linguaggio, quella lingua permane immutabile con lievi aggiustamenti. Avviene una alterazione rallentata che si cristallizza nel tempo. In fin dei conti è la legge della permanenza che si mescola con quella necessità di adattabilità che oggi chiamiamo resilienza. Per capire l’opera di Mathias Klotz, bisogna guardare le sue architetture da questo punto di vista e quindi andare oltre.
Il cileno, classe 1965 e dal 2003 preside della Facoltà di Architettura, Arte e Design dell’Universidad Diego Portales di Santiago del Cile, ha archiviato una serie impressionante di progetti realizzati elaborando nel tempo una linguistica sempre più raffinata, nella quale sono riconoscibili dei punti fermi e delle evoluzioni sistemiche che, per certi versi, sembra portino verso una scomposizione spaziale dei suoi artefatti. In un equilibrio di forme che si esaltano attraverso un gioco di piani materiali scanditi da elementi invisibili, ma comunque forti e decisi, che delimitano lo spazio abitabile. Su Mathias Klotz si può trovare un’ampia bibliografia che va dalle monografie ai tanti articoli critici sulla sua produzione, ma ritengo interessante, in questi tempi privilegiati dall’informazione diretta, quello che...
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