Parlando con Antonio Iascone ci interroghiamo sull’architettura italiana, precisamente su quella parte di essa che abbiamo già incontrato parecchie volte nel “Viaggio in Italia”: l’architettura di quello che una volta veniva chiamato, alle volte con malcelato disprezzo, “professionismo”, ovvero quel genere di architettura che intende stare sul mercato, che con esso si confronta deducendo da esso le sempre variabili leggi della domanda e dell’offerta, adattandosi. Questa architettura ha avuto il suo momento clou tra gli anni ’60 e il decennio successivo. Vengono in mente allora alcune pubblicazioni dell’epoca: Italy Builds di Kidder Smith, o Architettura italiana oggi di Carlo Pagani.
Sfogliando le pagine di questi vecchi libri si rimane ancora stupiti di quante opere venivano costruite all’epoca capaci non solo di stare sul mercato, ma di nobilitarlo al livello più alto concesso. Ne risultava un’Italia ottimista, ormai sideralmente lontana dalla tragedia della guerra e dalle distruzioni ad essa connesse. Si respirava persino, vedendo gli allegri balconi, i pimpanti rivestimenti a mosaico, le grandi vetrate e quegli interni spaziosi e illuminati, il senso di quello che adeguatamente Paolo Portoghesi definiva “stile cordiale”, di una cordialità persino balneare, capace di personificare i valori e lo stile di vita di una borghesia in ascesa. Nei suoi momenti più elevati al termine professionismo era adeguato aggiungere un aggettivo: “alto”.
Cosa caratterizza l’alto professionismo, oggi come ieri? Innanzitutto l’affidabilità tecnica, intesa come capacità di restringere al minimo quel divario tra rappresentazione astratta dell’architettura e la sua realizzazione. L’affidabilità degli “alti professionisti” si esprime allora con un linguaggio ben preciso:...
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