Negli Anni ‘80 del secolo scorso imperversava sugli schermi della televisione italiana una pubblicità il cui slogan era “Milano da bere”. Più passa il tempo, più quei trenta secondi che raccontavano volenti o nolenti la trasformazione di una città dedita all’industria pesante in un paesaggio urbano frizzante all’apice di una cultura basata sulla soddisfazione edonistica sembrano un vero e proprio trattato. E non serve scomodare Umberto Eco e la sua analisi semiotica per comprendere quanto profonda sia stata la trasformazione che è cominciata quaranta anni fa. Anche perché ora ne vediamo i risultati. Alcuni sono passati sulla nostra pelle, e spesso ne portiamo ancora le cicatrici, altri sono palesi e si leggono nei cambiamenti avvenuti nella città, che prima di tutto è costruita sulle relazioni sociali e, al variare di queste, viene ridefinita nelle sue parti, in un continuo sovrapporsi di strati che ne raccontano la storia. Addio agli operai, benarrivati i creativi. E benvenute le regole dell’industria leggera. Non più materialismo fine a se stesso, ma ricerca della compatibilità e della sostenibilità ambientale e adattamento alle situazioni di stress attraverso le regole dettate dalla resilienza. Cambiano i paradigmi e, come spiegava Eco, si creano delle nuove icone che li rappresentano.
Avviene così che, in quella che un tempo era considerata la prima periferia milanese a meridione dello scalo ferroviario di Porta Romana, un complesso composto da due capannoni industriali occupati inizialmente da attività tipografiche ritrovi vita come sede per Golden Goose, società di moda che opera a livello internazionale. Una metamorfosi che sfrutta con intelligenza le opportunità strutturali presenti in questi edifici progettati dall’ingegneria civile trasformandoli in un’opera di architettura contemporanea. E che...
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