Rivalutare l’architettura brutalista
In seguito ai numerosi avvenimenti dello scorso anno le persone in tutto il mondo hanno avuto l’occasione di riflettere, e riesaminare con un attento occhio critico la storia e l’ambiente costruito. Qui, negli Stati Uniti, la pandemia e i movimenti come il Black Lives Matter hanno maggiormente evidenziato le disuguaglianze all’interno della nostra nazione e delle nostre città, e l’organizzazione sociale razziale che le perpetua. Allo stesso tempo, fenomeni ambientali come incendi boschivi e bufere di neve senza precedenti hanno dimostrato la vulnerabilità delle nostre attuali infrastrutture e delle nostre comunità di fronte al cambiamento climatico.
Cosa abbiamo ereditato esattamente, e come dobbiamo affrontare la situazione attuale per poterla migliorare?
La questione riguarda in particolare gli architetti: molti di noi sono più che mai determinati a occuparsi delle pressanti problematiche sociali e ambientali che si sono imposte all’attenzione ed è incoraggiante vedere quali sforzi si stanno già compiendo - da azioni di sostegno agli studenti a quelle indirizzate alle comunità e a organizzazioni più ampie che stanno riorientando e rielaborando le loro attività. Con questa mia analisi vorrei rendere disponibile un modello di percorso per la pratica e la ricerca che spero possa essere particolarmente incisivo; un percorso che possa portare a rivalutare l’architettura in cemento che abbiamo ereditato, ovvero quegli edifici costruiti 50-60 anni fa, spesso chiamati brutalisti, e rendere noi architetti in qualche modo responsabili del loro futuro. Finora questo compito era affidato in gran parte ai conservatori storici, ma la vasta portata delle problematiche e l’enorme quantità di azioni e idee creative necessarie per conservare e riconvertire questo patrimonio immobiliare richiedono ulteriori attori e persone di talento. I progettisti hanno la facoltà di decidere come considerare questi lavori propri di una precedente generazione ed è importante soprattutto che questo accada ora, in questo periodo di riassestamento e di impegnativa rivalutazione.
Negli ultimi dieci anni circa, l’architettura brutalista degli anni ’60 e ’70 è stata nuovamente oggetto di particolare attenzione: le sono state dedicate mostre, libri, indagini e dibattiti anche sui social media. Se ne celebrano le immagini su Instagram, si indaga sulle sue origini teoriche, o si rimaneggia sulle stesse, se ne segnalano la vulnerabilità e lo status di precarietà; e tutto ciò porta la questione fuori dai seminari degli esperti consentendole una maggiore diffusione nella comunità. Questo recente interesse è inoltre prova del fatto che gli architetti, ma non solo, sono concettualmente attratti dal brutalismo, poiché in esso intravedono degli elementi di vicinanza con le nostre sensibilità attuali. Questo interesse tuttavia non è riuscito a salvaguardare il futuro della maggior parte delle architetture in cemento del secolo scorso.
Gli edifici che si distinguono per importanza storica, progettati da noti architetti, come il Carpenter Center di Harvard a Cambridge di Le Corbusier (1963), sono stati recuperati e ristrutturati; molti altri invece sono stati già demoliti, come l’edificio a forma di quadrifoglio del Prentice Women’s Hospital a Chicago di Bertrand Goldberg (1968), oppure sono a rischio, come la struttura aggettante del Marine Stadium di Miami di Hilario Candela (1963). L’elevato rischio di demolizione degli edifici brutalisti è dovuto in una certa misura alla percezione negativa di una buona parte dei cittadini che - nonostante la recente diffusione della questione - tende tuttora a vederli come “brutali”. In molte aree geografiche, inoltre, questa tipologia costruttiva è la conseguenza di un’idea politica molto forte che si riflette nel loro programma (solitamente di housing sociale o alloggi popolari) destinandoli a scomparire nei progetti di riqualificazione urbana. Queste correlazioni li rendono difficilmente apprezzabili esteticamente e diminuiscono le loro possibilità di essere reinventati o modificati. Esiste infine una serie di questioni pratiche che fanno pendere l’ago della bilancia verso la demolizione: la necessità di occuparsi del deterioramento, spesso invisibile, del cemento armato che invecchia, di aggiornare o sostituire sistemi costruttivi obsoleti, e di fare in modo che gli edifici siano a norma di legge in relazione alla loro accessibilità, efficienza energetica e sicurezza. Adeguare a nuovi utilizzi spazi interni ed esterni di grandi dimensioni e costruiti per uno scopo preciso non è semplice, come non lo è lottare contro l’obsolescenza delle strutture esistenti che si trovano su terreni appetibili.
Preservazione del patrimonio storico o preservazione dalla dispersione del carbonio?
Una volta individuate queste sfide, perché dovremmo attivarci affinché questi edifici in cemento armato siano conservati? Cosa li rende degni di essere salvati? Che ruolo possono assumere gli architetti nel prendere decisioni riguardo al destino di un qualsiasi edificio? Dietro la nostra attenzione alle strutture brutaliste si cela sicuramente la volontà di prenderle in seria considerazione, ma anche un po’ di nostalgia per la loro agenda filosofica e sociale ben definita. In più esse si presentano come una gradita alternativa alla banalità del vetro di cui molte opere contemporanee fanno un uso eccessivo. Finora però la giustificazione più comune per la loro preservazione è il valore storico. Sebbene questo sia certamente un motivo più che valido, incentrare il valore di queste architetture unicamente sulla storia restringe la discussione sul futuro dell’architettura brutalista a una sola manciata di edifici e al semplice dubbio sul loro futuro: devono cioè essere conservati nella loro originalità oppure riadattati più liberamente? In questo modo, inoltre, si ignora il resto dell’ampio e vario panorama architettonico in cemento di quest’epoca, ma anche una delle ragioni fondamentali per la sua conservazione: il cambiamento climatico.
Al giorno d’oggi siamo tutti al corrente delle eccessive emissioni di gas serra da parte dell’industria edilizia moderna, dove il cemento è il nemico numero uno per effetto della massiccia presenza di carbonio. Se pensiamo al problema dal punto di vista ambientale, le statistiche di David Fixler, secondo cui solamente tra il 1945 e il 1980 è stato costruito circa tanto quanto in tutta la storia passata, toccano un punto dolente. I nostri edifici di questo periodo - soprattutto quelli in cemento armato a vista - non sono semplicemente artefatti culturali e tecnologici; raccontano la storia dell’Antropocene e, tralasciando il loro significato simbolico, evidenziano le enormi quantità di carbonio rilasciate nell’atmosfera durante la loro costruzione. L’inquinamento e la criticità attuale peggioreranno se si opta per la loro demolizione e sostituzione con edifici nuovi. Al contrario, si risparmia una grande quantità di emissioni di carbonio incorporato - generalmente tra il 50 e il 75% - se si sceglie invece di recuperarli per un loro riutilizzo.
A dire la verità, il bisogno di conservare l’architettura brutalista - e tutti gli edifici esistenti - è costantemente in aumento. Non solo perché ci stiamo avvicinando rapidamente a una soglia di temperatura globale talmente estrema da causare eventi catastrofici per le persone e per la natura, ma anche perché le norme si stanno evolvendo per far fronte alle condizioni critiche in atto. Grazie all’Accordo di Parigi sono stati introdotti diversi provvedimenti per la maggior parte finalizzati alla riduzione del carbonio attivo, ovvero delle emissioni di gas serra legate al consumo energetico degli edifici. Tuttavia il carbonio incorporato, ossia le emissioni derivanti dai materiali edilizi e dal processo di costruzione, rappresenta una porzione altrettanto significativa, circa un quarto, di tutte le emissioni del settore edilizio. Esistono sempre più normative il cui scopo è ridurre le emissioni di carbonio incorporato, incluse quelle che impongono ad architetti e proprietari di valutare gli edifici esistenti come risorse, e di tenere conto dei materiali costruttivi in essere per un riuso degli stessi secondo il concetto di economia circolare. Non esiste un’unica, semplice via per smantellare gli edifici in calcestruzzo gettato in opera. La principale sfida progettuale sarà quella di riutilizzarli su scala architettonica.
Si ripropongono dunque all’attenzione i numerosi edifici in cemento tipici degli anni ’60 e ’70, a lungo ignorati a causa della loro mancanza di personalità e di caratteristiche specifiche. Perché non considerarli un’opportunità, come spunti per un’ipotesi di progetto che non rilasci carbonio e che consenta l’adozione di un programma stimolante per il loro riutilizzo? Una volta liberi dalla loro “ordinarietà”, dal tradizionale intento conservativo, essi possono diventare a livello globale un’infrastruttura sperimentale, evidenziando così come le esigenze ambientali del ventunesimo secolo siano in grado di avviare una nuova epoca di creatività e innovazione progettuale.
Architettura in cemento
L’attenzione volta al futuro di questi edifici ha un importante richiamo storico. In Francia, Le Corbusier è stato un protagonista fondamentale nell’utilizzo del cemento in architettura. Consapevole del fatto che sarebbe stato difficile ottenere una qualità molto alta con i metodi di produzione e di getto in opera del calcestruzzo del suo tempo, egli ha trasformato la rugosità della superficie in una caratteristica, definendola béton brut.
In Inghilterra, nel 1955 Reyner Banham scriveva un articolo dal titolo “The New Brutalism” in cui ne delineava le seguenti caratteristiche: l’edificio deve essere definito dalla leggibilità della sua pianta, rendere visibile chiaramente la sua struttura, essere immediatamente riconoscibile nella sua identità e dovrebbe esaltare le caratteristiche del materiale usato al grezzo (“as found”).
È importante ricordare che il brutalismo si è sviluppato nel clima di ripresa globale dalla devastazione emotiva e fisica causata dalla Seconda guerra mondiale. Nell’analizzare le origini psicologiche del movimento, Beatriz Colomina sostiene che sia nato dal trauma di una vita passata tra raid aerei, paure e distruzioni, ragione per la quale un’architettura in cemento rappresentava un modo subliminale per proteggersi e chiudersi in se stessi. Allo stesso tempo possiamo anche immaginare che nell’Europa del dopoguerra, dove la maggior parte degli edifici era stata rasa al suolo, gli architetti siano stati obbligati a decidere come destinare le macerie considerandole possibile materiale da costruzione. Gran parte dell’architettura del dopoguerra ha quindi inserito materiali di edifici dismessi in nuove edificazioni. Ne è un famoso esempio la cappella di Le Corbusier a Ronchamp (1955), le cui pareti sono state composte con le macerie della cappella, distrutta dalle bombe dei nazisti, che si trovava nello stesso luogo.
A una nuova modalità di devastazione globale che sta oggi minando la nostra esistenza - il cambiamento climatico -, si potrebbe rispondere con un’architettura basata nuovamente sul riutilizzo dei materiali. Pensando al futuro, è interessante notare che Banham non ha mai associato il termine brutalismo all’architettura in cemento; infatti, il primo esempio che egli presentò, la scuola di Alison e Peter Smithson a Hunstanton (1954), era costruita in acciaio. Secondo la sua definizione di brutalismo, il cemento difficilmente avrebbe i requisiti per essere considerato un materiale, in quanto essendo un liquido che assume il volume della propria cassaforma, non possiede lo status “as found”. Questa definizione equivoca ci invita a riesaminare la percezione attuale del brutalismo, che dai tempi di Banham è cambiata e si è trasformata sino ad assumere una connotazione negativa associata a quelle strutture in cemento simili a fortini impenetrabili.
Recuperare gli edifici nella loro interezza
Si può ottenere molto analizzando e intervenendo sull’architettura in cemento; infatti, se creassimo dei nuovi edifici convertendo interamente quelli esistenti, potremmo addirittura recuperare lo spirito del brutalismo che tanto apprezziamo per il suo tratto distintivo assieme alla sua descrizione originale “as found”. Forse intervenire con nuovi progetti sull’architettura brutalista “as found” potrebbe persino modificarne la residua percezione negativa. Per trovare soluzioni che consentano di conservare più manufatti in cemento, che tuttavia vanno modificati per rispondere alle esigenze della società contemporanea, dovremmo essere più liberi nel modo in cui operiamo su di essi rispetto a quanto permetterebbe la pura conservazione storica; in alcuni casi saranno necessarie modalità radicali di adattamento e trasformazione. Per raggiungere questo obiettivo occorreranno architetti e designer creativi dotati di un buon ingegno tecnico. Quali strategie potremmo adottare per rimediare alle carenze, percepite o reali, degli edifici brutalisti? Come possono queste strategie essere determinanti nella creazione di un’architettura che abbia una sua ragione d’essere?
In un processo simile alla revisione di un testo, i progettisti possono rielaborare il preesistente correggendo, sintetizzando e modificando l’edificio originale in cemento, rimanendo fedeli al pensiero del suo progettista a tal punto che il loro intervento potrebbe persino risultare non evidente. Lo Smith Campus Center (già Holyoke Center) della Harvard University, progettato da Josep Lluís Sert negli anni ’50 e completato nel 1965, è stato ristrutturato nel 2018 dagli studi Hopkins Architects e Bruner/Cott Architects. La galleria centrale progettata da Sert come collegamento di due strade principali del campus era oscura e poco accogliente; i disegni originali mostravano la sua idea di aprire questo spazio verso il paesaggio per animare il percorso, una soluzione che non era mai stata realizzata. Proprio grazie allo studio di questi disegni, gli architetti hanno reintrodotto l’idea progettuale di Sert nella sua versione originale migliorando l’intervento.
Talvolta vengono eseguite delle modifiche allo scopo di sottolineare le parti rimosse o aggiunte dai nuovi progettisti, un lavoro che ci ricorda la funzione di Word che permette di mantenere traccia sia delle modifiche sia di chi le ha eseguite. Nel 2017 Heatherwick Studio ha riqualificato un ex complesso di silos industriali costruiti negli anni ’20 sul lungomare di Città del Capo, Sudafrica, destinandolo a diventare la sede dello Zeitz Museum of Contemporary Art Africa. La strategia progettuale prevedeva un taglio nella struttura cilindrica dei silos al fine di creare nuove geometrie che trasformassero i volumi ridefinendone forma e funzione. L’intervento vero e proprio ha riguardato la parte superiore della struttura, dove Heatherwick ha sostituito il cemento con una griglia di vetri strutturali sfaccettati e ha introdotto un nuovo linguaggio sorprendente nell’edificio originale, avendo ripensato completamente lo spazio non solo per il suo potenziale utilizzo ma anche per un diverso approccio esperienziale da parte del visitatore.
Un’ulteriore strategia interessante è quella di lasciare intatto l’edificio originale e crearne in adiacenza una replica. Questa tecnica è stata adottata da Lacaton e Vassal nel 2013 a Dunkerque, Francia, dove hanno mantenuto un magazzino in cemento del 1949 praticamente nello stato in cui si trovava e progettato un nuovo edificio adiacente della stessa altezza, forma e dimensione, destinato a ospitare specifiche funzioni programmatiche della collezione di arte contemporanea FRAC Nord-Pas de Calais. La capacità degli architetti di scorgere il potenziale della hall originale, nonché la loro decisione di mantenerla intatta per mostre su larga scala, deriva probabilmente dalla loro esperienza con il progetto di recupero del Palais de Tokyo a Parigi. Qui a Dunkerque, tuttavia, la loro aggiunta di un edificio contemporaneo rivestito in policarbonato traslucido e collegato all’edificio originale con un percorso interno dimostra l’efficacia della creazione di un gemello. Questo approccio esprime sia un’estrema sensibilità verso il manufatto preesistente, sia una forma di emancipazione con cui creare qualcosa di nuovo, utilizzando materiali contemporanei dotati di proprie caratteristiche progettuali.
Gli edifici in cemento possono essere riqualificati sia tramite modificazioni eseguite chirurgicamente sia con interventi di ampliamento. Ne è un esempio l’Harvard Science Center del 1973, altro progetto di Sert; l’edificio è stato rinnovato e ampliato nel 2004 da Leers Weinzapfel Associates, che ne hanno esaminato con estrema cura i lati affinché la loro struttura rivestita in pannelli di vetro potesse affiancare le ali dell’edificio originale in cemento. Gli architetti sono inoltre riusciti a rispettare i vincoli di costruzione imposti all’interno di un perimetro così ristretto.
Dal dialogo con l’edificio originale si generano risultati interessanti, frutto della variazione progettuale. Esistono anche progetti di ampliamento che tale dialogo non lo concepiscono neppure; questi ultimi tendono ad ignorare o, peggio ancora, a essere presuntuosi. Il problema è che in questo modo nessuno prevale, proprio come accade in quelle discussioni tra persone con ideali politici contrastanti in cui non si concede nulla. Se ci troviamo di fronte a un edificio in cemento degli anni ’60 o ’70, è meglio trovare un argomento su cui si possa avviare una conversazione. Un esempio interessante riguarda lo Yale Art and Architecture Building di Paul Rudolph (1963), ampliato e rinnovato da Gwathmey Siegel & Associates Architects nel 2008 e rinominato Rudolph Building. In questa occasione Gwathmey, ex studente di Rudolph di cui capiva il lavoro, ha spiegato: «Sarebbe stato semplice dire “Qui termina questo edificio, e questo è l’altro sito per quello nuovo”, e non creare un legame. Ciò non poteva essere fatto perché bisognava mantenere l’integrità dell’edificio preesistente, analizzare il sito adiacente e infine configurare il puzzle».
Per accrescere l’importanza di un edificio può essere d’aiuto prevedere anche un cambio radicale di destinazione d’uso. Lo studio David Chipperfield Architects, per esempio, sta riconvertendo la struttura dell’ex Ambasciata statunitense a Londra di Eero Saarinen del 1960 in un hotel di 137 stanze con cinque ristoranti e una spa. Questo intervento di lusso rispetta l’architettura originale con soluzioni che ne sottolineano la facciata importante e gli elementi interni. È chiaro che il programma di questo progetto si distacca drasticamente da quello precedente. Ancora più radicale è la trasformazione in hotel, completata nel 2019 da Beyer Blinder Belle, del terminal aeroportuale TWA a New York di Saarinen del 1962. La struttura in cemento risalente all’era dei jet sembra aver ispirato l’immaginazione degli architetti che sono andati ben oltre la classica programmazione di un hotel, portandoli alla creazione di una piscina/idromassaggio in copertura, camere pensate non solo per viaggiatori in scalo ma anche per soggiorni brevi e con vista verso le piste.
Questi sono solo alcuni esempi che hanno iniziato ad arricchire il nostro linguaggio formale da adottare negli interventi sulle architetture storiche in cemento. Le loro diverse strategie ci insegnano che ci sono molti metodi con cui i progettisti possono intervenire per allungare la vita degli edifici esercitando, intellettualmente e materialmente, il loro mestiere.
L’assunzione di un ruolo responsabile
A un certo punto si è pensato sicuramente alla demolizione di molti di questi edifici così diversi e superati; quindi, se da un lato la loro sopravvivenza costituisce un fatto positivo, dall’altro dobbiamo riconoscere che la maggior parte degli esempi appena citati sono visti come icone del brutalismo o sono edificati in luoghi urbani di prestigio. I rispettivi proprietari hanno valutato se economicamente convenisse salvarli e cambiarne la destinazione d’uso, oppure smantellarli. Quale ruolo possono esercitare i progettisti nel definire il futuro di edifici in cemento di cui non si è proprietari?
In primo luogo possiamo avviare una ricerca sugli edifici in cemento meno conosciuti presenti all’interno del nostro ambiente. Da una semplice domanda come “qual è la storia di quello strano edificio?” può scaturire un’indagine interessante che sicuramente non possiamo cercare su Google. Possiamo impegnarci a mettere assieme il maggior numero di dati su questi edifici, che chiariscano per esempio quanti ne esistono in una posizione prestabilita in modo da creare una statistica sulla loro diffusione. Di pari passo alla ricerca può essere svolta una coinvolgente campagna di comunicazione e diffusione di tali informazioni. Questi edifici non hanno ricevuto un’attenzione sufficiente e sono come pezzi di carbonio puro - come diamanti grezzi - staticamente in attesa di essere lucidati e resi di nuovo rilucenti. Un processo di riadattamento è fondamentale per conservarli e arginare il cambiamento climatico.
Questa non è necessariamente un’argomentazione da presentare durante una protesta con marce organizzate e cartelli contro la demolizione di un edificio, perché è probabile che prima ancora che queste manifestazioni possano essere organizzate siano già state prese decisioni definitive e quindi può essere troppo tardi. Quello che potremmo fare invece è prevenire la necessità di tali proteste, utilizzando l’immaginazione architettonica per prevedere un futuro diverso per questi edifici, prima ancora che si opti per la loro demolizione. E questo è uno dei ruoli fondamentali di un progettista.
La ricerca del mio studio, e quella da me condotta presso la Harvard Graduate School of Design negli ultimi 15 anni, hanno affrontato la questione del recupero di edifici sottoutilizzati. Quali strategie di reinvenzione devono essere ancora esplorate? Potremmo immaginare di costruire sopra vecchi edifici, come a Roma, andando a formare una stratificazione storica dei vari interventi architettonici? In che modo questa strategia potrebbe personalizzare un edificio verticale? E se al contrario erigessimo una piccola struttura prefabbricata in calcestruzzo, con la funzione di teatro o spazio per incontri, all’interno di un nuovo involucro?
Che tipo di nuovi legami si potrebbero instaurare tra il vecchio e il nuovo? Possiamo lasciar parlare l’architettura in cemento anche se ci troviamo in disaccordo con quanto esprime? E come procediamo con le nuove architetture, venendo arricchiti dalle sfide poste dalla possibile riqualificazione di questi edifici in cemento?
Ci potremmo anche domandare sino a che punto gli architetti possono utilizzare la loro creatività e le loro conoscenze sulle dinamiche sociali per proporre soluzioni inedite ai proprietari di tali edifici, anziché rimanere in attesa di precisi incarichi. In altre parole, reinventare un edificio in cemento vicino a noi, coinvolgere le nostre stesse comunità, creare uno spirito di fiducia, rimanere proattivi e farsi portavoce dei problemi connessi agli edifici cui teniamo, tutto ciò permetterà agli architetti di avere un impatto di fattibilità sulla gran quantità di architettura in cemento presente nei nostri contesti ambientali. Le nostre proposte di recupero possono essere di programma, di forma o di estetica. Le nostre iniziative collettive, unite a una necessaria normativa ambientale che prevede una migliore gestione degli effetti del carbonio, hanno il potenziale per dare inizio a una nuova, illuminata epoca nel processo di sviluppo delle nostre città.
Quando si vuole evitare che il carbonio si disperda nell’ambiente, molte nuove soluzioni possono diventare realtà.
Conclusioni
Una foresta è un dispersore di carbonio, al pari di una città piena di edifici in cemento. Mantenerli al proprio posto vuol dire sfruttare la nostra conoscenza, ormai estesa, del loro valore per prevenire ulteriore inquinamento e contribuire a salvaguardare il nostro futuro. Utilizzare le nostre competenze progettuali per inaugurare e modellare la loro prossima fase di vita vuol dire rispettare i contributi di coloro che ci hanno preceduto e creare una proiezione futuribile; una realtà in cui coesistono condizionamenti materiali ed emancipazione creativa.
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