Per comprendere l’architettura di Barreca & La Varra è necessario fare un passo indietro. Entrambi si sono laureati nell’Italia di Tangentopoli: una nazione all’epoca stordita dallo scoprirsi espressione di un sistema corruttivo strutturato e strutturante. Una nazione che da un lato vedeva l’affarismo più sfrenato, cieco da diventare autodistruttivo, dall’altra una élite intellettuale che viveva ai margini di tutto ciò, nei casi peggiori godendo delle briciole che il sistema lasciava cadere. Quale era allora la strategia per uscire fuori da una condizione assediante? Inconsciamente, come progetto condiviso da una generazione, si è affacciata una ipotesi: stare dentro il mondo ma emendarlo, dimostrando solidità, contegno ed affidabilità.
Questo progetto, che oggi in parte può considerarsi concluso, ha dato vita ad un linguaggio espressivo che traduceva in forma proprio la solidità, il contegno (che in architettura è meglio chiamare decoro) e l’affidabilità. Un sobrio linguaggio di sfondo quindi la cui intenzione non è stata affatto quella di opporsi alla stagione precedente, quella dell’architettura della città su cui troneggiava Aldo Rossi, ma di riconfigurarla attraverso delle attenzioni nei confronti di ciò che quella stagione si era dimenticata di prendere in considerazione. Innanzitutto le periferie e con loro quei territori contaminati a metà tra la città e la campagna, solcati dalle infrastrutture che sembravano essere l’unico elemento di ordine in un susseguirsi di elementi che potremmo definire a labile congruenza. Siamo alla fine degli anni ’90 ed un gruppo di architetti scopre attraverso un tour quelli che, con una felice locuzione, Mirko Zardini ha chiamato i “paesaggi ibridi”.
Li scopre non solo come realtà dimenticata su cui operare, ma anche...
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