In un momento in cui avvertiamo l’urgenza di ridefinire i saperi noti e di individuare modelli nuovi, una riflessione sulla figura e sul ruolo dell’architetto ci offre una duplice opportunità: annodare l’antico al presente e alleare il sapere umanistico con quello tecnologico. Notum e novum C’è una polarità che in modo permanente regola i tornanti della storia e ritma le visioni del mondo, l’evolversi delle società, la vita degli individui: la chiamerei, con il lessico dell’antica Roma, la polarità tra notum e novum. Notum sta per la tradizione, la storia, il passato; rinvia ai padri, ai maestri, ai classici: ha lo sguardo rivolto all’indietro. Novum sta per rivoluzione; è l’inaudito, il mai visto, il mai sperimentato: rinvia ai figli, agli allievi, ai moderni (da modo, “ora”). Come ogni rivoluzione, è orientato al futuro. Novum a Roma era sempre qualcosa di dirompente e traumatico: nova la terra e novae le leggi che gli Argonauti cercavano con la loro spedizione sacrilega e funesta, lasciandosi alle spalle la terra nota e le leggi notae; novus, opposto a nobilis, è l’uomo che per primo nella propria famiglia con un salto sociale ricopriva una magistratura; novae le res proclamate da Lucrezio, vale a dire il rivoluzionario e iconoclastico messaggio del De rerum natura che scardinava politica e religione, i due capisaldi della cultura romana; nova, e pertanto illicita, la religione cristiana che, in nome della fede interiore e personale, rifiutava i riti e i sacrifici ufficiali ed esteriori della religio civilis. La novitas - filosofica, religiosa, politica, artistica, linguistica - aveva sempre un timbro antagonistico; né poteva essere altrimenti per una cultura incentrata sulla lezione del passato e sulla concezione dell’eterno ritorno. Oggi sotto quali specie ci appare il novum? Siamo testimoni e, nostro malgrado, più spettatori che protagonisti di una duplice e concomitante rivoluzione, che mette in gioco il destino individuale delle persone e quello collettivo dei popoli, e che ci consegna un mondo eccentrico, senza centro, e ametrico, senza misura: da un lato, la rivoluzione sociale dell’immigrazione, che decreta il tramonto dell’eurocentrismo; dall’altro la rivoluzione tecnologica che rende tutto istantaneo e planetario, con la conseguenza di dilatare lo spazio e divorare il tempo. Sono messe in discussione le nostre identità consolidate e rassicuranti: l’identità culturale, sollecitata dall’avvento di culture altre; l’identità professionale, scalzata dalla robotica; e la stessa identità personale, che - in un vero e proprio sovvertimento parentale - vede l’eclissi perfino di parole che ritenevamo uniche, inalterabili e insostituibili, come “padre” e “madre”: prima il sangue, il ghénos, superato dalla legge, il nómos, e ora il nómos soppiantato dalla téchne, quella tecnologia che sta esplorando e varcando i territori del trans-umano e del post-umano. Il salto è dalla biologia, alla cultura, alla tecnologia. Di fronte a questi scenari, che appaiono fuori controllo, il pensiero sembra segnare il passo; come se stessimo smarrendo alcuni fondamentali; come se scontassimo tutta la complessità e drammaticità della parola latina finis, che segna la vera natura dell’uomo: “la fine” da patire, “il fine” da raggiungere, “il confine” da oltrepassare. Prometeo e il monoteismo tecnologico Come si è arrivati alla novitas del monoteismo tecnologico? La separazione tra cultura umanistica e cultura tecnico-scientifica è novità recente. Per secoli, poesia e scienza, pensiero filosofico e pensiero scientifico, cultura della mano e cultura del cervello non hanno conosciuto né rispettive autonomie né sostanziali differenze. Dai Presocratici al Medioevo, dal Rinascimento all’età moderna, completo era ritenuto solo quel curriculum che contemplava e coniugava studi umanistici e scientifici. Lucrezio (I sec. a.C.), come il suo maestro poetico Empedocle (V sec. a.C.), compone il De rerum natura in versi; Seneca (I sec. d.C), deciso a indagare prima se stesso e poi l’universo (Lettera 65, 15 me prius scrutor, deinde hunc mundum), si dedica parimenti alle opere morali e alle Ricerche sulla natura; i programmi della Schola Palatina, voluti da Carlo Magno e rimasti in vigore per tutto il Medioevo, prevedono, oltre alla teologia, le arti del trivio - grammatica, retorica, dialettica - e del quadrivio, aritmetica, geometria, astronomia, musica; la grande stagione dell’Umanesimo, che rivendicherà e reinventerà l’insuperata dichiarazione di Terenzio, Homo sum, humani nihil a me alienum puto ( Il punitore di se stesso, 77: “Sono un uomo e penso che nulla di quanto riguardi gli uomini mi sia estraneo”), dispiegherà tutti i saperi con una potenza e una grazia tali da erigersi a modello universale al quale continuiamo a ispirarci. Quando quella concordia dei saperi diventa discordia e si infrange? Le prime incrinature sono segnalate da tre grandi movimenti di pensiero e visioni del mondo: la rivoluzione scientifica del Seicento con i suoi protagonisti, Bacone, Newton, e soprattutto Galileo, con l’affermazione irreversibile del metodo sperimentale e il congedo definitivo dal metodo sillogistico-deduttivo di Aristotele; la rivoluzione dei Lumi, che, sintetizzata nell’imperativo kantiano “Osa sapere” (sapere aude), rivaluterà tutti i saperi, compresi quello tecnico e scientifico, per cui l’Enciclopedia del letterato Diderot e del matematico d’Alembert porterà come sottotitolo Dizionario ragionato delle scienze, delle arti e dei mestieri; infine, la rivoluzione positivistica dell’Ottocento. L’incrinatura più significativa tra la cultura umanistica e la cultura scientifica è avvenuta tra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi del Novecento. La letteratura sull’argomento ci dice che - preceduto nel dibattito nel 1881 da Thomas Henry Huxley e da Matthew Arnold (Scienza e cultura) e ripreso nel 1962 da Frank Raymond Leavis (Due culture?) - sarà il chimico e romanziere Charles Percy Snow nel 1959 a formulare l’espressione che darà il titolo alla sua celeberrima opera Le due culture 1. Le cause di questo dualismo vanno individuate, da un lato, nella frammentazione e nella specializzazione - e iperspecializzazione - dei saperi, dall’altro nell’egemonia della filosofia idealistica, che in Italia con Croce bollerà come “pseudo concetti” le ipotesi scientifiche e “pseudoscienze” tutte le discipline diverse dalla filosofia. Ma per fare piena luce sulla genesi storica del fenomeno bisognerà risalire alla fine dell’Ottocento, quando l’avvento imperioso della macchina come protagonista della produzione cambia i connotati dell’economia e della vita associata e culturale. Allora il conflitto fra scienziati e umanisti si trasferisce sul terreno dell’istruzione, che va estendendosi e nel corso della seconda metà del Novecento diviene un fenomeno di massa. Allora, sì, la frattura latente si fa conflitto aperto, perché la scienza alleata dell’industria richiede “tecnici”, mentre le humanities - eredi di un modello economico e sociale ormai al tramonto - sembrano produrre solo oziosi “intellettuali”. Ma, a mio avviso, è oggi, ai nostri giorni, che si compie la vera frattura tra il sapere umanistico e il sapere tecnico-scientifico. La discontinuità, questa volta, è stata improvvisa; e la transizione veloce; anzi le transizioni sono continue, ancora in corso, e sempre più veloci. Non si tratta solo della tecnologia delle comunicazioni che rendono tutto sincronico e planetario sommergendoci di informazioni, per cui i dispositivi connessi sono pari a 23 miliardi, e ogni minuto si inviano 187 milioni di mail, si scambiano 38 milioni di WA, 90.000 persone aprono la propria pagina Facebook. Non è solo questione di infosfera, in gioco è altro. La tecnica, propriamente la tecnologia, nata come alleata della scienza per soccorrere l’uomo, oggi non è più strumento: grazie all’uomo, diventato demiurgo di se stesso, essa è protesi che supera e perfeziona l’uomo e la natura. Mostrando tutto il suo potere e tutte le sue potenzialità, la tecnologia va a intaccare e invadere gli stessi domini della natura dalla genetica, alle neuroscienze, all’intelligenza artificiale, fino a consegnarci un uomo competitivo con la macchina, combinato con la macchina, aumentato dalla macchina. E anche minacciato dalla macchina. Di qui una vera e propria inversione tra fini e mezzi e l’avvento di un nuovo lessico: dall’umano al transumano, al postumano. Si avvera così quanto già diceva il filosofo Antifonte (V sec. a.C.): «Grazie alla tecnica risultiamo vincitori là dove la natura sarebbe più forte di noi». Di qui alcune domande decisive: le due parti che compongono la parola tecnologia - téchne e lógos (la ragione), in un felice connubio di quelle che fino a poco tempo fa chiamavamo cultura della mano e cultura del cervello - sono ancora in accordo oppure la téchne persegue una sciagurata autonomia dal lógos e si sposa col krátos, lo “stra-potere”, dando luogo alla tecnocrazia? La philotechnía (la cura della tecnica), divorzierà definitivamente dalla philanthropía (la cura dell’uomo), dal momento che già oggi vediamo che la tecnologia dei media digitali ha reso il mondo né più libero né più giusto ma più asservito e più omologato perché tutti la usano ma pochissimi la controllano? Un giorno progetteremo una macchina che ci sostituirà e forse eliminerà? La prospettiva di creare qualcosa che ci supera e che ci sopravvive, qualcosa di ripetibile e sostituibile, di perfetto e destinato a rimanere, mette in crisi noi, che siamo irripetibili e insostituibili, imperfetti e destinati alla fine. Il Prometeo che è in noi - che a lungo ci ha serviti e protetti - ci ha superati e ci domina, disvelando tutta la potenza del suo ètimo: Prometeo, vale a dire “colui che comprende prima”, “il previdente”, “il preveggente”. Di fronte a questo progresso scientifico e tecnologico vertiginoso e destabilizzante l’uomo per la prima volta rischia di sentirsi inferiore rispetto agli effetti che ha causato, ai prodotti che ha creato, alla macchina che ha costruito. Di qui la soggezione e l’umiliazione dell’uomo che si sente “antiquato” e affetto dalla “vergogna prometeica” (Günther Anders) 2. Quotidianamente si rinnova questa sfida delle macchine di cui al momento non riusciamo compiutamente a vedere né opportunità né rischi. Di fronte alla prospettiva che niente è impossibile, ci si divide tra entusiastici e scettici: tra chi crede in Prometeo infinito e chi teme il ritorno di Pandora; tra chi spera in un futuro utopico e chi paventa un futuro distopico; tra chi profetizza una “Atene digitale” (Erik Brynjolfsson) - nella quale regneranno tempo libero, ricchezza e robot che ci esenteranno dal lavoro - e chi, novello luddista, dichiara la propria ostilità ai nuovi traguardi della tecnologia. Sarà bene guardare in faccia questa realtà che, anche se poco familiare e ancor meno rasserenante, avanza in modo irreversibile e ineluttabile, senza incorrere nello stesso errore di quegli intellettuali dell’Ottocento i quali, sorpresi dalla rivoluzione industriale, allora non si sforzarono o addirittura si rifiutarono di capire. Tecnica e politica: la lezione dei classici Ma Prometeo non salva: la tecnica ha bisogno della politica. è la lezione del Protagora di Platone (321c-322d). Gli uomini morivano perché non sapevano difendersi dalle intemperie e dalle belve; allora Prometeo consegnò loro il fuoco, sottratto a Efesto, e altre abilità. Così potevano proteggersi dalle avversità della natura e dalla ferocia degli animali, ma non dagli uomini, che si facevano la guerra e si eliminavano, perché «conoscevano soltanto la tecnica (demiourgikè téchne) ma non l’arte della politica (politikè téchne)». A quel punto Zeus, temendo l’estinzione del genere umano, chiamò Hermes perché donasse a tutti gli uomini “l’arte della politica”, la sola che può salvaguardare la vita degli uomini e le città. Questa sarà anche la lezione di Aristotele, per il quale l’uomo è «l’unico vivente destinato alla pólis» e «chi vive separato dalla comunità è o dio o bestia» (Politica 1253a). La pólis, l’altra marca distintiva dell’uomo, accanto al lógos. La storia non ci è (stata) di grande conforto sul primato della politica. Un solo esempio. Platone e Seneca, filosofi al potere, hanno entrambi mancato l’obiettivo: ma il loro è un fallimento personale e situazionale oppure è il paradigma che sapere e potere sono res dissociabiles, realtà incomponibili, dal momento che il primo attiene al “dover essere” e richiede coerenza [“l’etica della convinzione”], e il secondo attiene all’ “essere” e richiede mediazione [“l’etica della responsabilità”]? Ai nostri giorni la politica sconta nuove prove e contraddizioni, identificata al vertice con certo leaderismo di seconda mano e alla base con una moltitudine di piccoli superuomini che danno vita a una sorta di niccianesimo di massa. Come può essa guidare quella tecnica che - paradossale contrappasso della sua connessione totale e costante con l’immensa rete del mondo (www.) - ha rimosso la relazione e causato un salto dalla socialità del noi alla solitudine dell’io? Oggi siamo in presenza di una divaricazione e di un divario enorme tra conoscenza scientifica e potenza tecnologica da un lato e impotenza politica dall’altro. L’umanesimo necessario La politica oggi non guida la tecnica: ma la tecnica può fare da sola? Può essere autonoma? Un fenomeno, su tutti, si va imperiosamente affermando: la signoria del presente, che, mentre ci depriva della conoscenza storica, esalta la dimensione dello spazio a scapito di quella del tempo. Assistiamo a quanto paventava Heschel3: «Nella civiltà della tecnica noi consumiamo il tempo per guadagnare lo spazio», ignorando che «il tempo è il cuore dell’esistenza». Possiamo sopportare la contraddizione di essere planetari per lo spazio e - asserviti alla dittatura del presente - provinciali per il tempo? A pagare il prezzo di questa cesura e censura sono i giovani, ai quali abbiamo delittuosamente staccato la spina della storia. A chi sostiene che la scienza e le tecnologie sono destinate a scalzare inesorabilmente le humanae litterae e che i problemi del mondo si risolvono unicamente in termini ingegneristici, si dovrà rispondere che, se la scienza e le tecnologie hanno l’onere della risposta (l’ars respondendi) ai problemi gravi e urgenti del momento, il sapere umanistico ha l’onere della domanda (l’ars interrogandi); e pertanto tra scienza e umanesimo ha da essere un’alleanza naturale e necessaria, perché i linguaggi sono molteplici ma la cultura è una. Lo stesso Steve Jobs4, in occasione del famoso Commencement all’Università di Stanford (12 giugno 2005), ci ha ricordato la necessità del ritorno alla figura dell’ingegnere “rinascimentale”, inteso come colui che sa «unire i punti» (connecting the dots): «non è possibile unire i punti guardando avanti; si possono unire solo guardando indietro». Queste parole di Steve Jobs a me sembrano il più bel commento, anzi una vera “traduzione” di quel passo del Petrarca, dove il grande umanista, consapevole del proprio ruolo di ponte tra classicità e modernità, tra passato e futuro, tra patres e posteri, si vedeva collocato sul confine di due popoli «con lo sguardo rivolto contemporaneamente avanti e indietro» (Libri sulle cose da ricordare 1, 19 simul ante retroque prospiciens). A proposito del connubio tra saperi scientifico-tecnologici e saperi umanistici, anzi dell’unità e unicità del sapere, conforta vedere che l’acronimo STEM di Science - Technology - Engineering - Mathematics è stato già nel 2006 corretto da Georgette Yakman in STEAM, con l’integrazione della A di “Arts”, “le arti”, intese come i saperi umanistici in generale. È la stessa filosofia di Steve Jobs, per il quale «La tecnologia da sola non basta. È la tecnologia sposata con le arti liberali, sposata con le scienze umane, che produce i risultati che fanno cantare il nostro cuore». I tecnologi (e gli scienziati), che nella loro iperspecializzazione rischiano di “sapere tutto di niente” («specialisti ignoranti», Snow), non rifletteranno mai abbastanza sul fatto che avere un Ph.D. significa non essere un mago delle nanotecnologie, un genio della biodiversità, un prodigio dell’astrofisica, ma Philosophiae Doctor, “esperto di filosofia”, vale a dire titolare di una visione che tiene tutto insieme, di un sapere integrale alimentato da pensieri lunghi. Un gran bel titolo da onorare nel segno di quella che i Greci chiamavano enkýklios paidéia, “formazione circolare”: altroché saperi orizzontali e trasversali! La verità è che mentre il sapere scientifico-tecnologico - quasi a sostituire le recenti fallimentari ideologie infuturanti che promettevano l’avvento dell’uomo nuovo - corre speditamente e celebra quotidianamente i suoi trionfi, quello umanistico appare in affanno, tenue, se non residuale. Questo sonno della ragione rischia di costarci caro. Avvertiamo l’esigenza di un télos, un disegno, che, riattivando la spina della storia, tiri un filo fra passato e futuro, fra memoria e progetto, fra trapassati e nascituri; disorientati e allarmati - secondo la fulminante sintesi di Ricoeur - da un’epoca in cui all’ipertrofia dei mezzi corrisponde l’atrofia dei fini. E avvertiamo, altresì, la necessità di un diálogos, un’intesa fra i diversi mondi, linguaggi, saperi: un orizzonte e uno sguardo panoramico da affidare a un nuovo umanesimo, inteso non come l’altra metà del pensiero o come l’altro punto di vista rispetto al versante scientifico-tecnologico, bensì come “pensiero lungo” che tenga insieme e spieghi i diversi punti di vista; come scienza dell’intero, come «arte della sintesi» (Umberto Eco). George Steiner qualche tempo fa testimoniava che nel suo College a Cambridge neppure i premi Nobel capiscono i rispettivi lavori! Non sarà un caso se anche per i filosofi del ventesimo secolo appare intramontabile il bisogno di ricongiungersi alle origini del nostro pensiero occidentale, intendo dire il linguaggio dei Presocratici: per Martin Heidegger essi hanno compreso che la questione della “verità” va posta come “disvelamento”, a-létheia, appunto, come la chiamavano; per Karl Popper, che ha scritto proprio un Ritorno ai Presocratici, essi rappresentano i padri della “tradizione critica”. Necessità di un nuovo umanesimo: sì, perché i tempi spiegano le tecnologie, l’umanesimo spiega i tempi. Scuola e Università Abbiamo bisogno di intelligere, interrogare, invenire. Intelligere. Come già ammoniva Spinoza, non c’è né da piangere, né da ridere, né da protestare, ma da capire (Non ridere, non lugere, neque detestari sed intelligere). Sì, intelligere: “cogliere (legere) il dentro” (intus) e “la relazione” (inter) delle cose. Servono non opinioni (dóxai) ma - direbbe Empedocle - “pensieri lunghi” che facciano da sutura tra tanta frammentazione dei saperi, da connessione tra i vari punti, da relazione tra le singole parti. Interrogare. Abitare le domande, nella consapevolezza che l’ars interrogandi è più importante e decisiva dell’ars respondendi. Il domandare, si chiedeva Heidegger, non è forse «la pietà (Frömmigkeit) del pensiero»? Dove sono finiti i perché interrogativi? Il mondo è pieno di incompetenti e di ciarlieri che rispondono a domande che non ci interessano. Infine, invenire. “Scoprire”, nel duplice significato di “trovare” quanto di notum abbiamo sotterrato e dimenticato, e di “inventare” quanto di novum ci viene prospettato e richiesto; vale a dire, mettere a petto, confrontare, coniugare la lezione dei classici, dei maestri, dei padri con le domande dei viventi, degli allievi, dei figli. Questo è il compito di Scuola e Università, cui è affidata «l’interminabile lotta per il progresso del sapere e della pietas» (Umberto Eco)5. Ma - si obietterà - non è compito nuovo e urgente delle Scuole e delle Università trasferire alla società le conoscenze e competenze tecnologiche secondo la conclamata terza missione? L’utilità immediata della conoscenza non è forse invocata non solo dalle aziende e dal mercato ma anche dai bandi europei, dai Ranking internazionali, dal nostro stesso Paese affetto da un cronico deficit di cultura tecnica e scientifica? Non è tempo che l’Università si configuri come nobile officina di brevetti, spin-off e startup per risollevare le sorti dell’occupazione e dell’economia? Queste sono finalità secondarie e derivate o se vogliamo benefici effetti collaterali, non la ragione prima e fondativa dell’Università; Politecnici, Fachhochschulen, Business School assolverebbero più e meglio quei compiti. A chi crede che all’Università spetti il compito di insegnare un mestiere, ha risposto circa trent’anni fa il Rettore di Harvard Derek Bok: «se voi studenti pensate di venire in questa Università ad acquisire specializzazioni in cambio di un futuro migliore state perdendo il vostro tempo. Noi non siamo capaci di prepararvi per quel lavoro che quasi certamente non esisterà più intorno a voi. Ormai il lavoro, a causa dei cambiamenti strutturali, organizzativi e tecnologici è soggetto a variazioni rapide e radicali. Noi possiamo solo insegnarvi a diventare capaci di imparare, perché dovrete reimparare continuamente». Intendo dire che la competenza tecnologica - per la quale spesso i discenti superano i docenti - è condizione necessaria, ma non sufficiente. Ci vuole ben altro! All’origine della parola architetto So bene che non si può oggi parlare dell’architetto come figura assoluta e olistica, come idealtipo di platonica memoria; che accanto al progettista ci sono altre declinazioni e sfaccettature (il modellatore, il visualizzatore, il disegnatore tout court e così via): ma intendo correre il rischio di parlare dell’architetto restituendogli il significato originario, linguistico, etimologico. Vedo in lui il professionista vocato a tenere insieme progetto e memoria, sapere tecnologico e sapere umanistico che, distinti nei loro codici e linguaggi, presuppongono e invocano l’unità della cultura. Il sapere tecnologico capta il novum del presente; ha lo sguardo rivolto in avanti; adotta il paradigma sostitutivo della dimenticanza; si iscrive nello spazio; ha familiarità con la vita intesa come zoé, “principio vitale”; semplifica la complessità; è abilitato alle risposte; rincorre i mezzi; punta sull’hardware. Il sapere umanistico conosce il notum della storia; guarda avanti e indietro; adotta il paradigma cumulativo della memoria; si distende nel tempo; ha familiarità con la vita intesa come bíos, “esistenza individuale”; interpreta la complessità; abita le domande; esplora i fini; punta sul software. All’architetto - «un muratore che sa il latino» (A. Loos) - spetta tenere insieme urbs e civitas, spazio e tempo, philotechnía e philanthropía; farsi promotore del diálogos e indagatore del télos. Di qui la “responsabilità” sociale dell’architetto, vale a dire il doveroso impegno di dare una risposta: il collocarsi non a valle ma a monte della politica, giocando d’anticipo un ruolo attivo. Possibile che si debba attendere un’enciclica del Papa per scoprire i danni dell’antropocene? Le manifestazioni degli adolescenti per farci meditare sul clima? In questa direzione va la stessa etimologia della parola. Architékton infatti significa “sovrintendente, direttore dei lavori”, o meglio “ideatore del progetto”, e si oppone a cheirótechnos, “lavoratore manuale, manovale, artigiano”. Isidoro, nelle Etimologie, dice che «gli architetti sono muratori che pongono le fondamenta» (19, 8, 1 Architecti autem caementarii sunt, qui disponunt in fundamentis), riprendendo un’immagine di san Paolo, là dove l’Apostolo dice: «come un sapiente architetto io ho posto il fondamento; un altro poi vi edificherà sopra» (I Corinzi 10 Ut sapiens architectus fundamentum posui, alius autem superaedificet). Siamo nella simbolica della costruzione: l’Apostolo è l’architetto, il primo costruttore, che pone Cristo a fondamento dell’edificio di quella Chiesa che sorgerà sopra di lui. L’architetto sta all’inizio del processo e tiene tutto insieme: come il regista. Come ha mirabilmente dichiarato Vitruvio all’inizio del De Architectura, egli possiede conoscenza empirica e sapere tecnico non meno che conoscenza teorica e sapere umanistico: Architecti est scientia pluribus disciplinis et variis eruditionibus ornata. In questa riflessione e convinzione mi soccorre un episodio. Michel Serres6 racconta che «nel comitato costituito per costruire la diga di Assouan, c’erano tutti: ingegneri, idraulici, chimici di materiali, costruttori edili, ecologisti. Ma non c’erano né un filosofo né un egittologo». Michel Serres era stupito di queste assenze. Al giornalista che, stupito del suo stupore, gli chiese: «a cosa sarebbe servito un filosofo in un comitato di questo tipo?», rispose: «avrebbe notato l’assenza dell’egittologo». Analogamente al filosofo, anche l’architetto coglie - con lo sguardo totale e unitario - la pluralità dei problemi, la convergenza delle competenze, la complessità delle soluzioni di un progetto. 1. Ch.P. Snow, Le due culture, Marsilio, Venezia 2005. 2. G. Anders, L’uomo è antiquato, 2 voll., Bollati Boringhieri, Torino 2007. 3. A. J. Heschel, Il Sabato. Il suo significato per l’uomo moderno, Garzanti, Milano 2018. 4. S. Jobs, Stay hungry, stay foolish. La vita di un genio che ha cambiato le nostre vite, «Corriere della Sera», Milano 2011. 5. U. Eco, Perché le Università? Discorso pronunciato all’Università di Bologna il 20 settembre 2013 in occasione delle celebrazioni per i venticinque anni della Magna Charta Universitatum. 6. M. Serres, in J. C. Carrière - U. Eco, Non sperate di liberarvi dei libri, trad. it., La Nave di Teseo, Milano 2009. Ivano Dionigi Latinista, Presidente di AlmaLaurea, già Magnifico Rettore dell’Alma Mater Studiorum - Università di Bologna
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