Guido Piovene inizia il suo “Viaggio in Italia” dall’estremo nord, dall’Alto Adige di cui coglie la caratteristica principale: il suo essere pago di se stesso, il suo appartenersi. Una condizione esistenziale questa, derivante dall’orgoglio di chi si è dovuto difendere dalla compresenza di troppe culture: l’italiana, l’austriaca, la svizzera e la tedesca. L’Alto Adige quindi come cultura locale, concentrata sul proprio patrimonio, sulla preservazione dello stesso, una preservazione che Piovene definisce “sentimentale” e poiché il termine è scivoloso lo specifica: «il sentimentale versa in perpetuo le emozioni del cuore sugli oggetti predestinati dal costume a raccoglierle». Da questa intensa frase è necessario partire per comprendere la forza dell’architettura in Alto Adige, una forza sentimentale, ma di un sentimentale riservato, rigoroso, di poche parole, alle volte persino austero, come d’altronde si addice ad un popolo abituato da secoli all’asprezza della montagna. Un sentimentale più che altro impersonale, collettivo, che fa propria la frase di Ortega y Gasset per cui: “l’autentico architetto è un intero popolo”. Caratteristiche queste che fanno sì che l’Alto Adige sia oggi la regione italiana con l’architettura di maggior pregio nel Paese. Eppure, come ci racconta Josef March, la tradizione di architettura moderna in questa terra era pressoché inesistente: poche opere, per di più imbrigliate in un regionalismo spesso ricadente nel kitsch. La nascita dell’architettura moderna altoatesina risale ad una data recente, il 1972, quando viene approvata l’autonomia regionale. Tra i provvedimenti varati dalla neonata provincia vi è un programma di edilizia scolastica in cui i nuovi appalti avrebbero dovuto adottare obbligatoriamente l’istituto del concorso....
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