Gli italiani non esistono, o meglio non esistono come razza in sé. Essi non sono sostanze, ma accidenti della storia che ha fatto incontrare, non senza drammi, tipi umani diversi. È stata la storia a giustapporre germanici, arabi, svevi, spagnoli, francesi e quant’altro, ed è stata la storia che ha prima sgrossato, poi levigato, fino a rendere coeso un qualcosa composto da entità così disparate. Prendiamo il caso dell’architettura moderna. In Italia, sin dai tempi di Arrigo Boito, la modernità è stata un prodotto di importazione. Siamo stati invasi dalla modernità, ma all’invasione è subito seguita l’integrazione e immediatamente dopo la reinterpretazione. Così l’Art Nouveau e lo Jugendstil si sono trasformati nel Liberty e Le Corbusier e il Bauhaus si sono trasformati nel Razionalismo italiano. Un’eccezione, il Futurismo: cronologicamente la prima delle avanguardie. In questo caso sembrerebbe una nostra invenzione, ma se guardiamo a fondo Sant’Elia, sostanzialmente il primo e unico architetto futurista, ci rendiamo conto di come la sua architettura sia la sintesi di diverse tendenze di importazione sintetizzate e poi confezionate ad arte in maniera tale da farle apparire prodotti di invenzione. Senza considerare tutto ciò non si comprende quell’eclettismo che ancor oggi nutre la nostra architettura, un eclettismo che però non inficia un’altra caratteristica: la continuità. Il nostro eclettismo infatti si muove sempre nel rispetto di una linea continuativa: una linea varia, ma pur sempre continuativa. Prendiamo come esempio Massimiliano Fuksas, quasi la quintessenza dell’architetto eclettico. La sua architettura non è un prodotto di invenzione ma importa etimi e forme dall’estero, ma la sua reinterpretazione di ciò che viene dall’estero, la sua capacità di imporre quasi una...
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