Guido Piovene nel suo Viaggio in Italia aveva compreso del Friuli una strana contraddizione, ancora attuale: un essere della gente allo stesso tempo campanilista e nomade, un sentirsi legati al territorio e allo stesso tempo sempre disposti a partire, a lasciarsi andare ad altre culture. Probabilmente la ragione di questa apparente contraddizione è da ricercarsi in un altro aspetto tipico dei friulani: il loro pragmatismo, una qualità, questa, rara in Italia, un Paese che per sua natura tende sempre a preporre il discorso di principio alla realtà dei fatti per poi manipolare a posteriori le idee per adeguarle a fatti ben diversi dalle intenzioni iniziali. D’altronde il Friuli è terra di confine, incistata tra la cultura slava, veneta ed asburgica, quasi in sospensione tra di esse: una terra si potrebbe definire equidistante. Ho in mano un vecchio libro del 1989 dedicato agli architetti friulani, un libro sorprendente. In un momento di grave crisi dell’architettura nazionale, almeno da un punto di vista realizzativo, in Friuli gli architetti costruivano e non poco. All’epoca andava di moda lo storicismo postmoderno il cui massimo rappresentante era Aldo Rossi per cui archi, colonne, modanature e bandierine sui tetti e quant’altro per uno stile di breve durata, propalato nel mondo intero dagli Stati Uniti e specialmente dall’Italia. Non che nel libro dedicato agli architetti friulani questi etimi non ci fossero, ma è come se gli stessi fossero utilizzati con una sobrietà che rasentava la parsimonia, esprimendo tra l’altro un distacco ben lontano dallo sgomitante postmodernismo storicista. Sfogliando quelle pagine, in cui non pochi sono i professionisti di valore, capaci di dare un senso ai loro edifici, si ha come l’impressione che per loro una buona composizione non derivasse tanto dalle note quanto dalla tonalità con cui queste note erano suonate e la tonalità...
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