Ad alta quota lungo la fascia pedemontana dell’Himalaya, vicino alla città di Dehradun, si trova il laboratorio tessile Ganga Maki, il cui nome prende spunto sia dal Gange, sacro fiume del quale questa regione dell’India settentrionale ospita la sorgente, sia dalla designer giapponese Chiaki Maki. Assieme a Rakesh Singh - cuoco, suo collaboratore già a Tokyo e ora direttore dello studio - si è messa alla ricerca di tradizionali maestri tessitori indiani e di tintori della seta. Infine si è rivolta a Bijoy Jain, architetto a capo di Studio Mumbai, chiedendogli di progettare un complesso di edifici che sorgessero dal terreno in modo del tutto naturale, come le fibre e le stoffe lavorate al suo interno. Jain è un idealista, per certi versi un romantico, che crede nel valore spirituale dell’artigianato. Si ispira alle opere di William Morris e John Ruskin, che condannavano la produzione industriale meccanica della Gran Bretagna del XIX secolo. Mahatma Gandhi scelse l’arcolaio portatile, che egli stesso tesseva tornando a casa, quale simbolo della lotta indiana per l’indipendenza. Jain, come Wang Shu in Cina e Glenn Murcutt in Australia, si dedica in prima persona ai progetti, prendendo in carico solo ciò che può effettivamente gestire. «Chiaki ed io siamo entrambi affascinati da ciò che l’attività manuale può fare per sostenere e sviluppare la società» spiega l’architetto. «Si tratta di mettere il cuore, la mente e il corpo in un progetto. Non importa quello che si fa, ma si deve farlo bene. Il processo ha più valore del risultato». Ganga Maki è l’emblema di uno scambio interculturale, un esperimento di rinnovamento di una comunità contadina. Studio Mumbai aveva inizialmente un approccio analogo, sviluppando ogni progetto sul campo, nel suo laboratorio situato in una zona rurale al di fuori della...
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