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Un manifesto disaggregato

Nader Tehrani

Un manifesto disaggregato
Scritto da Nader Tehrani -

Prologo

In un periodo come quello attuale, date le molteplici complessità legate al fare architettura, l’idea di un manifesto potrebbe apparire una soluzione parziale e limitata. Al contempo, una “chiamata alle armi” risulta condizionata da una visione d’emergenza indotta dai molti testi impegnati a “creare” una crisi solo per avvalorare quanto essi stessi affermano. Di certo questo non significa che, in ambo i casi, non ci sia la necessità di una visione chiara o, ancor più, che non vi siano urgenze tangibili con cui l’architettura non possa confrontarsi.

Non voglio, dunque, “appoggiarmi” al caos che vive la disciplina, allo Zeitgeist o a una specifica visione dell’architettura, bensì dedicarmi a una serie di discorsi indipendenti, dalla longue durée tipica dei dibattiti architettonici, storici e attuali, accompagnati da motivazioni tematiche; anche solo per una migliore distribuzione degli - invocati - investimenti in architettura, nell’ottica di farne progredire l’odierna prassi. A complicare il dibattito è purtroppo il fatto che ci troviamo di fronte a una situazione spiacevole in cui la nostra disciplina adotta una nuova ottica. Dato l’abbondare delle collaborazioni, veniamo travolti da una “raffica di competenze” provenienti da altri campi, diventando a tutti gli effetti il contenitore di know-how altrui.

Se da un lato la situazione ha ampliato il dominio in cui operiamo, dall’altro ha ridotto il nostro raggio d’azione, marginalizzando il nostro coinvolgimento, categorizzandolo o frammentandolo. Questo è, in gran parte, dovuto all’immagine che l’architetto porta con sé, ovvero quella di portatore di competenze diffuse e non specialistiche, capace di approfondire solo alcune discipline. La difficoltà, per l’architetto, sta dunque nel trovare il modo per ricreare una condizione di libertà attraverso la riappropriazione degli strumenti e dei metodi legati al processo di progettazione (in continua evoluzione), così da rinsaldare i legami con le regole del fare e valorizzare la specificità del fare e del pensare l’architettura. Le note e le ipotesi qui formulate e strutturate come brevi riflessioni possono essere considerate come amuse-bouche o “assaggi di contenuto” per una ricerca ancor più ampia e già in corso.

 

Il rapporto tra “parte” e “tutto”

L’idea di un’architettura che stabilisce una relazione tra “parte” e “tutto” ha radici nell’antichità, con le diverse espressioni del linguaggio classico quali esempi di corrispondenza biunivoca tra elementi architettonici quando si interfacciano rispetto a matericità, proporzione, funzione ed espressione. Ovviamente, ciò non si riduce alla tradizione classica, ma trova tracce eloquenti anche nell’architettura del Vicino e Lontano Oriente. Basti pensare alla costruzione in muratura del minareto del periodo selgiuchide a Saveh, in Iran; oppure a quella in legno del santuario Goryo-jinja a Kamakura, in Giappone. Sono dimostrazioni di quanto la specifica tecnologia di un materiale possa fare progredire il quadro organizzativo, spaziale e strutturale della catena architettonica.

Altrettanto importante in questi esempi è, forse, l’estrema cura con cui vengono stabiliti i vincoli che guidano le rispettive composizioni strutturali. Il pattern creato dai mattoni sulla muratura o il modo con cui vengono sovrapposti gli elementi in legno, così come la scelta di non sottrarsi alla specificità del mezzo, dimostrano il grado di versatilità necessario nel processo di assemblaggio di una costruzione. 

Il concetto di assemblaggio, oltre a essere utile per far progredire queste riflessioni, è anche un elemento centrale del dibattito architettonico storico. Esistono infatti edifici la cui forma, il cui uso dello spazio e il cui dettaglio presentano un grado di indipendenza totale rispetto al mezzo con cui vengono edificati. Nei templi classici, il passaggio dal legno alla pietra testimonia una funzione essenziale dell’architettura: l’abilità di instaurare un legame tra la struttura e l’ornamento e dimostrare, attraverso la rappresentazione, il peso dei componenti architettonici. I triglifi, per esempio, sono una dimostrazione di come un ornamento superficiale in pietra sia il riflesso della struttura profonda e portante del tempio (sebbene questa materia prima, una volta assemblata, giochi un ruolo strutturale tra realtà e finzione). Con l’avvento dell’Architecture Parlante, gli elementi dichiarati e simbolici sono chiamati a pronunciarsi contro la solidità della pietra da cui sono stati ricavati; come nella raffigurazione in pietra dello zampillo d’acqua nel progetto di Ledoux per le Saline Reali. Qui assistiamo a un’evidente rinuncia all’etica della reciprocità tra forma e contenuto, ovvero, al modo in cui l’assemblaggio di un mezzo può rafforzare la sua espressione.

Nei dibattiti più attuali, questo argomento si ripropone in edifici il cui tropo principale è la superficie continua tra pavimenti e pareti, che sfida la percezione comune delle convenzioni architettoniche. Essendo la continuità qualcosa di più di uno strumento retorico (ma non ancora un metodo di edificazione), le linee di giunzione assumono un maggiore peso specifico nello stabilire la “parte” in relazione al “tutto” che dà forma agli edifici. A tal proposito, Zaha Hadid per il complesso culturale Heydar Aliyev adotta un’unità costruttiva generica parametricamente malleabile e, di conseguenza, al servizio dello sviluppo e della fluidità della forma (in effetti, l’unità risulta svincolata dalla forma). Al contrario, Preston Scott Cohen nel Museo d’Arte di Tel Aviv evidenzia il conflitto tra la diversa configurazione delle lastre della copertura e la geometria dell’edificio, sottolineando la tensione tra neutralità e spettacolarità architettonica. In effetti, l’aspetto dell’edificio è il risultato della composizione dei vari piani; il prodotto finale rimarca - in maniera evidente - l’ottimizzazione del processo di fabbricazione. Un approccio leggermente diverso emerge osservando il padiglione spagnolo progettato da Benedetta Tagliabue per l’Expo di Shanghai, dove semplici pannelli in vimini sono organizzati come scandole, con una tolleranza geometrica tale da creare molteplici curvature senza il bisogno di una soluzione dimensionale coerente nei punti di incontro. In tutti questi casi, l’attenzione all’uso dell’assemblaggio diventa lo strumento di sfida architettonica per valutare la continuità lì dove il vincolo maggiore è rappresentato dai limiti costruttivi. Le ricerche odierne per la realizzazione di edifici con l’aiuto di stampanti in 3D porteranno in futuro a cambiamenti radicali nel dibattito sul tema; se attraverso questo nuovo set di protocolli sarà possibile eliminare la linea di giunzione, allora le sfide successive riguarderanno espansione e contrazione, isolamento e impermeabilizzazione, così come tutti gli aspetti che tendono a riportare la purezza all’interno della complessità e annunciano, quindi, la necessità di pensare a un rapporto tra “parte” e “tutto”.

 

Figurazione e configurazione

L’equazione tra “parte” e “tutto” dimostrata nel processo di assemblaggio è, per ampi tratti, connessa a un fenomeno da sempre in gioco nella progettazione: la tensione tra i processi di figurazione e di configurazione. In questo contesto, la figurazione si rapporta con gli aspetti dell’edificio che descrivono gli attributi formali più evidenti. Se nella scultura il potere della figurazione sta nell’essere una mimesi - basti pensare alle differenze nella rappresentazione del corpo umano prima negli Egizi, poi nei Greci e nei Romani -, in architettura si manifesta attraverso l’evoluzione delle tipologie edilizie evidenziate attraverso linee generali che ne disegnano la forma.

Tipologie edilizie quali la basilica, la rotonda o la stoà sono contraddistinte da caratteristiche imprescindibili. Il Tempietto di San Pietro in Montorio di Roma, il Battistero di Pisa e persino il Guggenheim di New York, essendo accomunati da un’organizzazione circolare che caratterizza la loro immagine generale, potrebbero essere definibili come rotonde. Tuttavia, osservando la loro configurazione strutturale, nelle piccole differenze tra le planimetrie e nella diversità delle loro texture materiche, si possono riscontrare differenze formidabili di configurazione.

La configurazione degli edifici è, pertanto, il risultato di un sistema di dettagli che sono precondizione per l’organizzazione delle sue varie parti: il ritmo e l’accoppiamento delle colonne, la struttura dell’edificio in relazione alle volte, l’accostamento degli elementi in muratura, il disegno delle finestre. Tutto ciò emerge da un processo di assemblaggio, di schematizzazione e di “intreccio” dei componenti da cui si possono dedurre regole o sistemi. Se la figurazione consiste in un processo top-down (da uno schema generale verso i dettagli), allora la configurazione è un processo bottom-up (la presentazione viene completata con parti nuove). La prima è dichiarata e definisce all’istante la forma delle cose, mentre la seconda sospende la conclusione formale, offrendo più varianti di risultato. Il “gioco dei sistemi” è, di fatto, parte dell’atto configurativo.

Per dare un esempio del risultato di configurazione delle parti, si prenda spunto dai cinque punti di Le Corbusier e dal loro molteplice impiego nella Villa Savoye e nel Parlamento di Chandigarh: due architetture identiche come sistemi, ma diverse nella rappresentazione finale. All’estremità opposta, si colloca invece il gioco palese di figurazione ideato da Ledoux per la Casa del Direttore delle sorgenti del fiume Loüe, dove il gesto formale (a priori), che suggerisce il gioco semantico del passaggio dell’acqua, viene privilegiato rispetto alla scomposizione delle parti più nascoste. 

Il potere del significato, nato in seno all’Architecture Parlante, è stato supportato negli anni a seguire da un quadro teorico più inclusivo, come descritto nel saggio di Venturi che distingue l’edificio icona e simbolo in sé (duck) dall’edificio convenzionale ornato da un simbolo (decorated shed). Comunque, la recente realizzazione di un edificio icona come il Basket di NBBJ suggerisce una crisi latente della funzione della raffigurazione: una volta spogliata dalle stratificazioni della narrazione, l’architettura si riduce a un rivestimento sommario incapace di esprimere nuove letture, nuovi coinvolgimenti e nuove interpretazioni. 

È questa l’eredità delle opere più figurative del post-modernismo, movimento in cui i riferimenti espliciti ai tropi iconici erano riducibili a vuote citazioni e a tentativi disperati di una legittimazione storica. Negli ultimi tempi, comunque, sembra riemergere una tendenza verso la figurazione, con manifestazioni nello skyline di varie città che ci sottolineano il pericolo della rappresentazione letterale implicito nella figurazione. Risulta tuttavia evidente che, indipendentemente dal fatto che la forma architettonica sia una tipologia frutto di una serie di indicazioni fornite dalla disciplina o un contenitore di vincoli legali basati su restrizioni urbanistiche, l’idea della forma come impostazione aprioristica sia un concetto cui opporsi nella stessa misura in cui si contrastano i suoi sottosistemi di rappresentazione (strutturali, meccanici o circolatori). In un modo o nell’altro, la tensione prodotta da queste due modalità di progettazione dà vita a divergenze e convergenze quando si tratta di costruire. Un esempio è l’intervento residenziale West 57th di BIG e il modo in cui questo courtscraper, una combinazione di grattacielo ed edificio a corte, frutto di trattative sulla normativa urbanistica, viene definito come prototipo di due tipologie. La rigidità nella resa netto-lordo richiesta in questa circostanza non è necessaria per tutte le tipologie edilizie, il che presuppone un certo grado di libertà per la progettazione, oggi sempre più presente nei punti in cui l’aderenza tra la configurazione e la figurazione va ad allentarsi. Per analogia, potrebbe essere paragonata alla relazione tra il guanto e la mano. 

 

Reciprocità e crisi di adattamento

Se la configurazione e la figurazione rivelano rispettivamente la struttura e l’involucro, allora l’idea di reciprocità e di relazione si evidenzia con forza nei punti in cui si interfacciano e nelle modalità di rapporto che stabiliscono. Se una certa etica presuppone la figurazione architettonica quale manifestazione della sua organizzazione interna, allora si può parlare di coesistenza funzionale all’interno dell’intero edificio in quanto struttura olistica.

A volte, per assicurare un’aderenza perfetta tra figurazione e configurazione si ricorre a un “tocco” di arte scenica; come nel Duomo di Firenze, dove la doppia calotta della cupola rappresenta un prerequisito essenziale per il metodo di costruzione. Se, in questo caso, il ricorso risulta fin troppo giustificato dalla struttura, si prendano allora in considerazione le simmetrie irregolari di Palazzo Massimo a Roma, quale esempio classico di sforzo architettonico nel conciliare esterni e interni di un edificio: l’unità creata tra la struttura medievale interna e la facciata monumentale realizza qualcosa di più grande della semplice somma delle parti. Qui, le reciprocità vengono armonizzate stanza dopo stanza, finestra dopo finestra, pilastro dopo pilastro, come avviene, del resto, nelle costruzioni moderne come testimoniato nella Villa Stein, dove l’esterno si allarga per perimetrare la vasca da bagno.

Tuttavia, con l’avvento delle strutture in acciaio e in calcestruzzo, la liberazione da una progettazione rigida (o aderenza totale) non è più una casualità bensì una parte integrante del loro fascino. La facciata libera e continua, cosi come l’involucro ornato (decorated shed), sono tutte manifestazioni intellettuali di progettazione flessibile tra configurazione e figurazione, che è parte e componente di un’architettura in cui l’inevitabile tolleranza tra la configurazione degli interni e la figurazione degli esterni gode di una certa libertà, almeno in teoria.

Nelle trattazioni più recenti si parla di involucro come espediente architettonico per calibrare la tensione tra interno ed esterno. Se la galleria Kukje-K3 a Seoul, progettata da So-il, è una versione più letterale di involucro attorno a una struttura rigida, l’intervento Tongxian Art di NADAAA tiene invece conto delle tensioni latenti tra gli elementi architettonici (scale, coperture e ingressi) e della loro espressione complessiva.

 

Matericità e consistenza tettonica

Da un punto di vista convenzionale, il ruolo della matericità può essere definito come l’ostacolo che sorge nel momento in cui il progetto passa dall’idea astratta alla fase esecutiva. Ovviamente, ciò presuppone una distorsione metodologica che avvia un processo di progettazione che esclude la specificità come punto di partenza. Facendo degli “edifici” la base delle riflessioni, si può osservare come la loro matericità possa portare in modo propositivo a possibili analisi, confronti e considerazioni. Essa offre inoltre un modo per superare la fase “rappresentativa” nel processo di progettazione o ridefinire l’idea stessa di rappresentazione. Se la nozione tradizionale di rappresentazione è pregiudiziale da un punto di vista figurato e descrittivo, allora nella proiezione architettonica il ruolo tra disegno, geometria e ideazione di una costruzione si fa sempre più importante. Qui, l’assemblaggio delle linee può equivalere a un atto di costruzione: realizzare un disegno come prova di un teorema. Ricordo la parete laterale della Weston House, dove la facciata continua in metallo corrugato è determinata dalla struttura della superficie ondulata. La relazione tra ondulazione e disegno trova qui riscontro nel fatto che le linee verticali, le quali definiscono le nervature lungo la facciata, formano al tempo stesso i limiti entro cui sviluppare la superficie. Da notare inoltre come la lunghezza della nervatura superiore (lineare) sia identica a quella della linea all’estremità opposta (ondulata); il che dimostra quanto il disegno sia, già di per sé, un atto di costruzione. Linea dopo linea, la consistenza della ondulazione è un esempio dell’effetto della matericità, in particolare del modo in cui un rivestimento può generare uno spazio. Di conseguenza, l’andamento “sinusoidale” dell’ondulazione è indissolubilmente connesso al più esteso uso strumentale delle potenzialità architettoniche di cui dispone.

La ricerca di Charles e Ray Eames sul compensato ha ispirato una serie di esperimenti in epoca contemporanea, che spaziano dall’arredo di Gehry agli Skating Shelters di Patkau Architects. In ciascun caso, il comportamento formale del legno diventa un mezzo per calibrarne la malleabilità. Nel tutore per immobilizzare l’arto inferiore disegnato da Eames (Leg Splint), la relazione tra la consistenza del legno - da una parte - e l’allineamento formale della gamba e del tutore - dall’altra - produce una tensione che dà origine a intagli, vuoti e calettature che riconciliano le due modalità di visione del progetto. Qui, si evince con chiarezza che il dettaglio è preso in prestito dal mondo sartoriale; viene infatti inserita una sorta di piega per consentire la mediazione tra la forma (figurazione) della gamba e la struttura (configurazione) degli elementi lignei.

 

Il dettaglio come principio generatore

Tradizionalmente, il dettaglio viene visto come la conferma di un’idea architettonica, dalla micro alla macro scala. È altresì visto come luogo di conciliazione, dove si riuniscono forme, materiali e vincoli in cerca di una soluzione. Il problema, ovviamente, è che il dettaglio viene - da sempre - considerato come il luogo dell’eccezionalità, dell’anomalia o della straordinarietà. Per questa ragione è importante ipotizzare un’alternativa: ossia il dettaglio non come anello conclusivo di un processo, bensì come generatore di sistema. Come esposto con chiarezza da Greg Lynn nella sua introduzione On Intricacy, il dettaglio può essere qualcosa di onnipresente, di pervasivo e di sufficientemente malleabile da ricoprire svariati ruoli, ovvero una precondizione cruciale per dare vita a spazi e forme potenziali di un’architettura in definizione. 

Il giunto triplo progettato da Richard Buckminster Fuller può essere interpretato come il dettaglio essenziale da cui traggono origine le sue cupole. Lo spessore del compensato, il giunto sovrapposto di ogni modulo e il tipo e l’ordine di sovrapposizione degli strati offrono parametri per dare vita a una moltitudine di geometrie. Di conseguenza, grazie alla flessibilità del dettaglio, è possibile immaginare molte altre forme al di là della cupola. L’installazione Immaterial/Ultramaterial, una delle mie collaborazioni ad Harvard, ne è una precisa testimonianza, non solo in quanto trasforma il dettaglio della curvatura del compensato quale punto di partenza per il progetto, ma anche rispetto alla più vasta geometria della forma che risponde alle contingenze del contesto.

Il dettaglio, dunque, se inquadrato come principio generativo e non come anello conclusivo, definisce il linguaggio di tutte le componenti di uno specifico progetto. Ciò presuppone un impegno ancor più ampio nell’organizzare la sintassi tra gli elementi - definibile anche come sistema - mediante la quale si possono valutare le relazioni tra “parte” e “tutto”. A questo proposito, nel quadro di un progetto di alto livello intellettuale, si può osservare come interagiscano tra loro i diversi materiali a seconda di chi lo firma, che sia - per esempio - SANAA o Kengo Kuma. La consistenza materica degli interventi di SANAA sottolinea il linguaggio comune che lega tra loro i vari progetti, nei quali vengono sperimentate procedure per smaterializzare materiali comuni, a sottolineare l’importanza della percezione nella loro resa architettonica. Al contrario, Kuma gioca in maniera evidente con i diversi materiali e le necessarie modalità di assemblaggio, dando vita a una pluralità di vocabolari. Volendo definire un linguaggio comune tra le sue opere, sviluppa un programma tematico dove la matericità e l’evidenza del dettaglio diventano precondizioni basilari per una ricerca più ampia. Il suo giocare con il laterizio, il legno, l’acciaio, il vetro e il bambù dà vita a risultati piuttosto differenti a livello formale, spaziale ed esperienziale, quantomeno per garantirsi possibili risultati alternativi.

 

Superare la dialettica tettonica

Il dettaglio come principio generatore fa, inoltre, strada a un concetto di etica che sfida le nozioni tradizionali dell’architettura. Gottfried Semper aiuta a teorizzare I quattro elementi dell’architettura categorizzandoli come “focolare”, “tetto”, “recinto” e “terrapieno”; in questo modo, identifica ognuno di essi con una funzione, etichettandoli e distinguendoli in base a differenze tipologiche o categoriche. Se le innate differenze tra struttura, involucro o fondazione non sono sufficientemente chiare, ridurle all’essenza diventa dunque una responsabilità se vista nella prospettiva di produrre nuove forme di conoscenza dall’interno della disciplina.

Per questo motivo, osservando il lavoro di Sigurd Lewerentz, in particolare quanto fatto nella chiesa di San Pietro a Klippan, in Svezia, apprendiamo una nozione che ha quasi dell’eccezionale. Qui, pavimenti, pareti e soffitti sono costruiti e articolati servendosi unicamente del mattone; tutti gli elementi vengono impostati con l’imperativo di sostenersi a vicenda, servendosi delle proprie qualità uniche a seconda dei diversi “compiti” che sono chiamati a svolgere (funzionali, strutturali o spaziali). La strategia monomaterica potrebbe sembrare limitante, mentre rivela una tattica liberatoria su quanto una singola unità possa realizzare quando forzata ad affrontare diversi compiti tettonici (non tramite un processo di diversificazione bensì di uniformità). A coronamento del discorso, Lewerentz introduce nel proprio linguaggio architettonico anche la malta, non come elemento statico bensì come componente attivo per creare uno spazio articolato in cui alcuni ampi vuoti favoriscono l’ingresso della luce naturale, inquadrano l’ambiente e sfidano il mattone nel ruolo di protagonista indiscusso dell’intervento.

 

Ricerca e produzione di nuove forme di conoscenza

Se la chiesa di Lewerentz invita all’innovazione delle tecnologie in laterizio, è importante pensare a come questo mezzo si sia evoluto nel tempo. In parallelo, c’è da porsi una domanda ancora più stringente sul ruolo dell’architettura quale strumento socialmente rilevante e su quanto queste trasformazioni tecnologiche possano avere visibilità al di là del mezzo. In questo contesto, potrebbe essere importante ricostruire la cronologia di alcune vicende impreviste e il modo in cui queste abbiano portato a un avanzamento culturale su ampia scala e prodotto, in maniera graduale, nuove forme di conoscenza.

Per esempio, i muri ad andamento sinusoidale nel campus dell’Università della Virginia presentano una forte analogia con le superfici ondulate in mattone della chiesa ad Atlántida di Eladio Dieste. Tra loro esiste una correlazione figurativa tanto evidente quanto immediata. Tuttavia, andando oltre il fatto che entrambe le strutture hanno una maggiore stabilità laterale dovuta alla maggiore superficie attiva, esistono sottili differenze tra le estrusioni ideate da Jefferson e i muri ondulati di Dieste; sono diversità che denotano una significativa trasformazione di conoscenze da una generazione a quella successiva. Ho ripreso questo tipo di parete per il progetto di Casa La Roca, ispirandomi alle geometrie di Dieste e sfruttando al tempo stesso il potenziale di Lewerentz quale strategia ibrida. Movimentando la parete mediante una serie di “pieghe” è stata conferita all’edificio solidità laterale. Al tempo stesso, variando la distanza tra i mattoni lungo la facciata (dilatando e restringendo la “maglia”), è stato dimostrato quanto il potere elastico del sistema, se sfruttato a dovere, può trasformare una parete passiva in un sistema per illuminare naturalmente l’ambiente. Ulteriori installazioni di questo tipo si possono ritrovare nel lavoro di Gramazio e Kohler, dove l’introduzione di robot per la posa e la distribuzione dei mattoni crea, a partire da elementi prodotti su larga scala, un risultato personalizzato e reiterabile che altera in modo radicale il nostro controllo del mezzo, sottolineando la diminuzione delle tolleranze, la radicalizzazione della malleabilità geometrica e l’abilità dinamica di organizzare scambi sistemici con altre discipline, quali prassi integrative nel processo di progettazione e di produzione.

Questa catena storica di eventi, anche se non lineare, informa chiunque nella sequenza di quanto la ricerca architettonica non si sviluppi nella reiterazione di ogni esperimento in maniera isolata, ma coinvolga anche altri esperimenti e crei un impegno (quasi un’etica di disciplina) nel produrre nuove forme di conoscenza. 

A questo proposito, l’evoluzione della prassi architettonica ha segnato uno spostamento paradigmatico, mentre i progressi nelle discipline delle scienze, delle tecnologie e dei media hanno dato vita alla realizzazione di una nuova conoscenza. Considerate il ruolo della geometria, dei metodi di proiezione e dell’invenzione della prospettiva nel Rinascimento: non solo la forma in architettura è influenzata da queste tecniche, ma allo stesso modo anche l’operato dell’architetto viene definito dalla sua capacità di controllare una realtà altrimenti inaccessibile agli altri.

Curiosamente, la rappresentazione ha regnato sovrana per diversi secoli, per poi essere messa alla prova da una serie di nuovi protocolli frutto dell’era digitale. Questa piattaforma digitale non solo ha profondamente influenzato i processi di visualizzazione, ma ha anche offerto metodi di simulazione che aiutano l’architetto a misurare e calibrare l’architettura all’interno di un quadro che ha visto lo spostamento di focus dalla forma alla performance. Al tempo stesso ha anche offerto un’alternativa alla tradizionale dicotomia tra progettista e costruttore, reincorporando il processo di disegno costruttivo all’interno del software dell’architetto, conferendogli dunque il potere di riacquistare il controllo - per molto tempo perso - sui mezzi e sui metodi di fabbricazione.

Per estensione, il regno computazionale offre codici e funzioni basati su regole che, oltre a creare un’alternativa alla composizione visiva, producono variabili di sistema in grado di moltiplicare le opzioni, eliminando al tempo stesso un grande numero di complessità. Se questo non bastasse a identificare uno spostamento di focus in un periodo così limitato di tempo, abbiamo anche visto come - tra le varie discipline - la biologia e le scienze esatte abbiano introdotto nuove forme di ricerca per espandere il terreno in cui l’architettura può indagare. Esiste una nuova distribuzione di potere, di responsabilità e di capacità derivante dalle sfide a cui sono sottoposti i confini disciplinari. Di conseguenza, ampliando la strumentazione dell’architetto, la ricerca passa da essere un elemento cardine a livello accademico (o teorico) a pilastro concreto del fare architettura.

 

La necessità di una agenda al di là del Giuramento di Ippocrate

Nel momento in cui viene riconsiderato ciò che fa l’architetto, sarebbe giusto ricordarsi delle responsabilità che derivano da questo titolo. Senza dubbio, l’attuale momento storico porta con sé sfide senza precedenti, disastri ecologici su larga scala, crisi economiche oltre i confini nazionali, migrazioni di massa provocate da guerre e da calamità naturali, così come molte altre circostanze che ci obbligano a domandarci se abbiamo i giusti mezzi per fronteggiare problematiche di questo calibro. Indipendentemente dal tipo di atteggiamento che possiamo assumere, potrebbe essere semplice pronunciare di comune accordo un Giuramento di Ippocrate che ci imponga di non recare danno. Tuttavia, questo non è sufficiente: il nostro apporto, seppur con le migliori intenzioni del caso, risulta inconsistente se svincolato da un’agenda architettonica.

Questo genere di agenda è ciò che definirei come integrazione necessaria agli interrogativi su responsabilità, capacità di problem solving e determinatezza - i quali possono avere un certo peso specifico, ma rimangono deboli se non basati su una motivazione che ne dimostri la visione -, ovvero l’abilità di una determinata area del sapere di rivolgersi alla società con i propri mezzi, le proprie domande e il proprio punto di vista.

Negli ultimi anni, l’idea di responsabilità sociale è riemersa quale fattore cruciale, il che sottolinea quanto l’architetto, in qualità di “attore culturale”, abbia una moltitudine di mansioni da svolgere; tra le altre, deve essere progettista, attivista, ambasciatore, traduttore, mediatore, costruttore e ricercatore. Tuttavia, nella retorica della responsabilità sociale, vi è anche una generale mancanza di attenzione rispetto a ciò che l’architetto fa in modi che altri non sanno fare, ovvero rispetto a quegli aspetti indissolubilmente legati alle sue capacità specifiche. Nella misura in cui l’abilità intellettuale è legata ad aspetti di realizzazione, rappresentazione e costruzione di un ambiente, questi saranno altresì il risultato della qualità unica della pedagogia di una disciplina i cui poteri derivano dall’abilità di dirigere, organizzare e conciliare vari flussi di competenze, tra loro divergenti, cosicché il progetto risulti sempre qualcosa di più grande rispetto alla semplice somma delle parti. La crisi (e il potenziale) dell’epoca attuale è il prodotto dell’influenza sull’architettura di molte aree di studio non attinenti alle tradizionali forme di rappresentazione all’interno della stessa disciplina architettonica. Tra queste, la nano-tecnologia, i sistemi informativi territoriali GIS, la biologia, la computazione e le scienze materiali sono solo alcune di quelle che hanno offerto rappresentazione e analisi ai sistemi di entrambe le generazioni, permettendo non solo di allargare la lente attraverso cui analizzare l’architettura, ma anche di offrire uno sviluppo epistemologico della disciplina.

In una certa misura, si inizia a parlare di architettura dalla micro-sezione di un muro, superando il territorio urbano fino ad arrivare alla scala del cosmo. Se può sembrare un’esagerazione, sarebbe bene ricordare quanto le proprietà di isolamento di un semplice muro e gli effetti del riscaldamento globale possano rientrare nella stessa equazione. Oggi, a differenza dal passato, abbiamo modi per connettere fenomeni a più scale, per accostarli tra loro e per immaginare una consequenzialità interdisciplinare. La sfida, allora, sta in gran parte nel capire come assimilare tecniche, metodologie di indagine e modalità di ipotesi e impiegarle per sottolineare con forza quanto l’architettura sia un mezzo dinamico e malleabile, dunque capace di abbracciare una pluralità di nuove forme di proiezione e di analizzare le cose da prospettive alternative. In misura ancor più importante, se siamo in grado di riconoscere il progetto esecutivo, la realizzazione e il coinvolgimento con il materiale quali importanti mezzi teorici (e quindi come nucleo centrale dell’ampliamento di nuove forme di conoscenza), possiamo allora vedere quanto lo sviluppo del settore attraverso l’assimilazione di nuovi strumenti possa portare a una ridefinizione ancor più radicale del ruolo dell’architetto.

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