Recentemente sono stato in varie città. Alcune mai viste prima, altre con cui ho grande familiarità e che conosco come un vecchio amico…
Parigi, per esempio. Non so quante volte ci sia stato, ma riesco ancora a ricordare a memoria tutte le fermate della metro. Che sia in parte dovuto agli otto anni di preadolescenza trascorsi con i docenti francesi dell’istituto Galatasaray, così naif e idealisti? Può essere, ma è una città che mi ha sempre affascinato, sin dall’infanzia.
Negli ultimi tempi sembra però aver perso il suo antico splendore. Per alcuni sta invecchiando, non ha più quel fascino della prima metà del XX secolo, attraversa un periodo di torpore sociologico e fisico così alto da far regredire i suoi intellettuali a ignoranti. Amen, così sia! Non mi interessa comunque l’opinione altrui, Parigi non mi ha mai deluso. Ogni volta, mi lascia senza fiato e la amo sempre di più. È una città un po’ arrogante, lo so, quasi altezzosa agli occhi di alcuni che la visitano per la prima volta. D’altro canto, dalle relazioni sulla trasformazione urbana del XIX secolo la città non esce poi così bene ed è facile criticare l’ideologia sottesa a questa visione. Come afferma David Harvey, “il deliberato piano di far assumere a Parigi il manto della Roma imperiale e diventare la testa e il cuore della civiltà in Europa ed oltre era centrale per gli sforzi di Haussmann”. Una trasformazione detta appunto “haussmannizzazione”, il cui fine era celebrare la potenza dell’impero, spettacolarizzando le cerimonie di palazzo, i funerali, i matrimoni della famiglia reale e le visite ufficiali. Un piano davvero centrato in pieno. Tutte queste celebrazioni erano fatte per sbalordire, per acclamare la dinastia imperiale in tutta la sua gloria e il suo potere. Il tessuto urbano, i luoghi e le prospettive vennero ristrutturati seguendo i caratteri della monumentalità, prendendo spunto dai simboli che sottolineavano l’autorità dell’impero. Una scelta che rinvigorì e consolidò il nuovo regime, innescando un processo che - impossibile negarlo - ebbe un grande peso nei meccanismi di controllo sociale e politico. Alcuni di quelli che oggi criticano Parigi, infatti, parlano ancora di quei giorni di egemonia dell’impero.
Se per un momento ci si riesce a liberare da questi pensieri e ci si lascia andare abbandonando il proprio corpo a questo romanticismo sfaccettato, se si possiede un talento simile, allora si riesce a godere di questa gloriosa città. Ed è quello che faccio ogni volta che vado a Parigi. O almeno ci provo…
Esattamente come alcuni mesi fa. Una mattina, di buon’ora, scendo per Avenue Junot, lungo i suoi piacevoli marciapiedi, ascoltando “La Tendresse” e immaginandomi tra i tavoli di legno dell’Au Lapin Agile. Il sole splende, l’aria è fresca e gradevole. Stiamo per dare vita a un nuovo progetto e pensiamo sia utile rivedere il Parc de la Villette e la Cité des Sciences et de l’Industrie, questa volta però con una prospettiva totalmente diversa.
I parigini che vanno a lavorare procedono a passo spedito. Altri siedono serafici ai café all’aperto, leggendo il giornale e chiacchierando con i passanti. L’apprendista del fioraio sistema con grande cura i vasi colorati al bordo del marciapiede. Dal fornaio, a fianco, esce il profumo di croissant appena sfornati. Poco oltre, il libraio con gli occhiali sul naso e dalla pettinatura indomabile parla a una donna che lo ascolta attenta. Sembra dirle la cosa più importante al mondo. D’improvviso, mi viene in mente cosa disse Hemingway a Hotchner quando gli fece visita. Si narra che fu proprio quella frase a dare il nome al suo capolavoro: “Se hai avuto la fortuna di vivere a Parigi da giovane, dopo, ovunque tu passi il resto della tua vita, essa ti accompagna perché Parigi è una festa mobile”. Come vorrei rimanere qui…
La seconda tappa è Wolfsburg. Vado a vedere il Phaeno di Zaha Hadid, altro centro scientifico molto più recente e molto più fantasioso. Credo riscuota un buon successo. La sera prendiamo un aereo per Hannover, noleggiamo un’auto e ci dirigiamo in città a tarda notte. Nel tragitto per l’hotel, ci appare davanti all’improvviso, quasi fosse una scultura. Non riusciamo a resistere al desiderio di avvicinarci all’ingresso. Come altri edifici di Zaha Hadid, è un oggetto accattivante che spicca nell’oscurità. Le facciate in calcestruzzo a vista sono ben fatte, frutto della meticolosità tedesca; la geometria è definita da linee sinuose che fluiscono le une nelle altre, mentre il vuoto al di sotto permette ottime visuali anche in piena notte. La stanchezza che ci accompagnava è ora scomparsa, ma tutt’a un tratto l’incantesimo si rompe. Mi soffermo su una porta a tutta altezza, progettata per seguire l’andamento della linea curva in posizione centrale con i montanti che ne riprendono l’inclinazione. Beh, può succedere di commettere qualche passo falso in edifici del genere, basta chiudere un occhio. Probabilmente, rifletto tra me e me, sono l’unico a cui dà fastidio.
Cerco di confortarmi da solo, pensando che a volte i nuovi trend in architettura tendono ad accettare anche forme così strane. Cerco di non darci peso, di non guardare in quella direzione, ma purtroppo non ci riesco. Così proprio non funziona. Il mio amico, per provocarmi, si mette accanto alla porta. Le linee sono inclinate, la porta è inclinata e, ovviamente, anche lui sta lì inclinato. A quel punto, il mio sguardo viene catturato dalle fenditure longitudinali lungo il soffitto. Alcune sono strutturali, la maggior parte lo sembra… ma in realtà è puro ornamento. Santo cielo. Rimpiango di essermi avvicinato così tanto; che brutta idea andarci di notte.
Trascorriamo ore a discutere sul perché una città simile abbia bisogno di un edificio iconico. Mi pongo la stessa domanda in un contesto opposto, a Praga, un’altra scoperta tardiva. Quando mi imbatto nella casa Fred and Ginger di Frank O. Gehry, rimango alquanto contrariato. Lo stesso gioco che “funzionava” a Bilbao e persino a El Ciego, qui evidentemente non regge. In realtà sono già un po’ infastidito dalle statue sul Ponte Carlo, una volta scoperto che sono imitazioni. Ma per favore, siate sinceri, non siete rimasti atterriti anche voi alla vista di quello strano edificio chiamato Casa Danzante?
Wolfsburg è un posto interessante. È una città dalle dimensioni normali, con il reddito nazionale pro capite più alto di tutta la Germania. Molto ordinata, molto verde, molto pulita: tutto “molto” più del necessario. Qui sorgono una chiesa costruita da Aalto, un centro culturale e un castello dalle vedute mozzafiato, che pare risalire al XIV secolo. A tutti gli effetti Wolfsburg è un polo industriale nato negli anni Trenta, quando è stato inaugurato lo stabilimento Volkswagen: se non fosse stato per la casa automobilistica, oggi forse non ci sarebbe una città. Mi viene in mente Karabük, in Turchia. Che tristezza, all’improvviso ho un forte mal di testa. Situazione e dimensione molto simili, stessa storia e un numero di abitanti pressoché identico. Ma allora, con così tanti punti d’unione, come è possibile dare vita a un risultato così diverso? Una domanda che meriterebbe un articolo a parte.
Da Wolfsburg, con la stessa macchina ritorniamo ad Hannover. Questa volta riusciamo a vedere il contesto circostante alla luce del giorno. Il viaggio è molto più veloce. O almeno, così mi pare.
Ripartiamo in aereo per Praga. Stiamo progettando il consolato turco e, da cinque anni a questa parte, abbiamo grosse difficoltà nell’ottenere i permessi edilizi. Di recente, ci sarò stato almeno dieci volte. Persino l’aggiunta di un paio di centimetri di copertura crea problemi nei vari incontri con le autorità. A questi si aggiungono le proteste dei proprietari degli edifici vicini. Uno di loro, per esempio, si lamenta che il suo giardino verrà ricoperto di polvere durante la costruzione. Un altro, invece, è capace di andare in tribunale a protestare sul fatto che, con il nuovo consolato, non avrà più la stessa luce naturale a illuminargli l’appartamento. Mi viene in mente la casa Fred and Ginger. Sono infastidito e amareggiato.
Praga è un luogo alquanto uggioso, meta ideale per chi vuole deprimersi. Dopo averci trascorso qualche giorno, ho capito ben presto perché Kafka non sarebbe potuto crescere altrove. D’altra parte, però, è una città meravigliosa. Mi piace molto andarci di tanto in tanto, camminare lungo il fiume dopo interminabili ed estenuanti riunioni, a volte sognando a occhi aperti e immaginandomela cent’anni fa nell’atmosfera cubista del Grand Café Orient, oppure gustandomi un formaggio artigianale mentre sorseggio un fresco Prosecco al bar dell’Alchemist Hotel.
Tornando a casa, a Istanbul, mi chiedo quanti ambasciatori si susseguiranno prima della fine dei lavori.
Un paio di settimane più tardi sono a Londra. Chissà quante volte ho passeggiato per le stesse strade. Ancora oggi non credo di aver colto totalmente l’essenza di questa città così sfaccettata. Lo scorso settembre abbiamo aperto il nostro secondo ufficio a Clerkenwell. Dopo lo studio di Istanbul all’estremità orientale dell’Europa, mi elettrizza l’idea di avere una nuova sede a Londra, al polo opposto, e di potermi dedicare ai progetti in un luogo così magico.
Istanbul e Londra… abbiamo allestito una mostra al RIBA in giugno, organizzando le letture su queste due amate città studiando un percorso in parallelo e presentandole assieme, nelle loro diverse stratificazioni. La mostra, chiamata “Ist-on Situations”, parte dalla prima metà del XIX secolo, analizzando i vari movimenti sociologici, economici e politici e le conseguenti trasformazioni. Abbiamo cercato di evidenziarne le similitudini e le differenze mediante relazioni causa-effetto. Abbiamo cercato di includere e valutare i nostri progetti recenti di Istanbul su varie scale, all’interno dei relativi contesti. È stata un’esperienza interessante e formativa.
Londra è una città permeabile. Qui, come a Manhattan - sempre afflitta dal traffico e dal malcontento - è possibile passeggiare da un’estremità all’altra. Si nota chiaramente come a Londra, nel corso dei secoli, le relazioni tra spazio pubblico e privato siano state oggetto di grandi riflessioni in termini di pianificazione urbanistica. Non riesco tuttavia a smettere di paragonarla a Istanbul, dove invece è diventato impossibile passeggiare persino per un paio di chilometri nel centro storico, dove abito. Le comunità chiuse si stanno diffondendo a macchia d’olio, favorendo una disintegrazione sociale che allontana le persone tra loro, anche a livello fisico.
South Bank è una delle riqualificazioni urbane di maggior successo realizzate di recente. Qui, sull’argine sud del Tamigi, è possibile vedere l’una accanto all’altra persone di diversa nazionalità e di diverso background. È un patrimonio enorme per la città. Appena attraverso il Waterloo Bridge, il National Theatre è lì che mi saluta. Ogni volta che lo guardo, cresce in me l’ammirazione per questo simbolo perfetto del periodo brutalista. Sono rimasto sorpreso quando ho saputo che era uno degli edifici più amati e odiati di Londra. Ciò significa che l’opinione del mondo dell’architettura non va di pari passo con quella della sfera pubblica; e questo può accadere ovunque e in qualsiasi circostanza. Proseguendo, mi imbatto nel Walkie-Talkie, una tra le realizzazioni più discusse oggigiorno. Ho come l’impressione che stia lì ad osservarmi dall’altra parte del fiume. Mi giro di scatto dall’altra parte.
Adesso sono ad Abu Dhabi per un nuovo progetto. Stiamo girando per la città con gli investitori e fuori il termometro supera i 40°C. È la prima volta che vengo qui, ma sono già stato un paio di volte a Dubai che è a un’ora di distanza. Si evince chiaramente che Abu Dhabi si ispira a Dubai, senza averne colto il minimo insegnamento. Stanno costruendo centinaia di grattacieli, studiati per essere tanti micro-universi che non hanno alcun interesse nel relazionarsi tra loro e con il resto del mondo. Ognuno segue una sua forma peculiare di stravaganza stilistica; l’effetto che danno è quello di tanti sapori decisi e diversi nello stesso piatto. Con una simile accozzaglia di edifici appariscenti, ecco che la città diventa un circo bizzarro.
Passiamo per la Grande Moschea dello Sceicco Zayed, considerata l’ultimo landmark di architettura islamica e promossa con orgoglio poiché all’interno accoglie il tappeto più grande e i candelabri più vistosi di tutto il mondo. è ben evidente come questo edificio superi tutti anche in termini di costi. E così, finisco inevitabilmente per pensare alla filosofia islamica e a uno dei suoi cardini concettuali: l’umiltà. Costruire un luogo sacro con un tale eccesso e pubblicizzarlo in modo così stravagante sono segnali evidenti del dilemma che oggi affronta l’architettura islamica. Un tema che richiederebbe un discorso ben più esteso e approfondito.
Da Abu Dhabi ci spostiamo a Dubai per prendere l’aereo. Non riusciamo più a vedere i grattacieli allineati lungo il litorale. Alla nostra destra, il deserto, con la sua sabbia tra il bianco e il grigiastro, si estende a perdita d’occhio. Enormi cartelloni si susseguono l’uno dopo l’altro, con affisse le foto di dirigenti, sorridenti e in abiti tradizionali, che annunciano lavori edilizi su larga scala. Mi ritorna di nuovo in mente ciò che ha scritto David Harvey sulla Parigi del XIX secolo, sulla monumentalità che accompagnava la creazione del tessuto urbano e sull’aiuto che questa dava alla credibilità e al potere dell’impero. Sottolineava come fosse uno strumento importante sia per il controllo sociale sia per la trasformazione totalitaristica. Le immagini così vistose e pacchiane, dopo così tanti anni dalla “haussmannizzazione” e a così tanti chilometri di distanza, mi fanno riflettere su quanto quest’esperienza, seppur in un luogo totalmente diverso, non si discosti molto dal passato. Mi dico di non pensarci. Più volte. È inutile comparare la Parigi del 1900 con l’Abu Dhabi del nuovo millennio. Cerco di focalizzarmi su altro, ma non ci riesco. È un’analogia che continua a pungolarmi.
A questo punto, appare Dubai all’orizzonte. Gli intensi raggi del sole riflettono le ombre dei grattacieli al di sopra della nuvola di polvere che abbraccia la città. Passiamo tra le sagome degli edifici, quasi fosse un film surrealista. È inevitabile domandarsi se ciò che si vede è reale…
Tra qualche secolo, quando verrà fatta una valutazione retrospettiva, non ci sarà traccia a dimostrare che il nostro tempo è stato un periodo architettonicamente interessante o meritevole. A Parigi, le persone non ricorderanno né la contestata Triangle Tower di Herzog & de Meuron, né la Filarmonica o le torri Duo di Jean Nouvel. Nel 2233, la Praga di oggi non sarà rievocata per l’edificio Fred and Ginger e nemmeno Londra per il Walkie-Talkie. Lo stesso vale per il Phaeno, che non sarà certamente la prima architettura a venire in mente quando si parlerà a fondo di progettazione contemporanea in Germania. Non vedete come i grattacieli di Abu Dhabi e Dubai siano già superati? Chissà, forse sarò io a sbagliarmi, ma gli storici non elogeranno questo periodo dove contesto, luogo e caratteristiche geografiche vengono ignorati e dove chi invece li tiene in considerazione viene messo in cattiva luce.
Nell’ultimo ventennio, l’architettura ha attraversato una parabola discendente scaturita dalla nascita di una stravaganza formale. Il parametricismo, sebbene sia cominciato con i migliori presupposti, ha dimostrato in realtà di non andare oltre a un fascino da autoappagamento stilistico, mentre la tecnologia digitale non è stata in grado di condizionare un cambiamento paradigmatico in architettura o nel prodotto finale della filiera costruttiva. L’edilizia rimane infatti ancora uno tra i settori produttivi più primitivi. All’inizio del terzo millennio, se da una parte si parla di invenzioni stravolgenti in rampa di lancio, di futuri aerei più veloci del suono e di veicoli a bassissimo costo prodotti in massa e in grado di non lasciare entrare nell’abitacolo nemmeno una goccia di pioggia, dall’altra si riscontrano tuttora difficoltà nel realizzare abitazioni senza perdite o spifferi.
Tuttavia non c’è bisogno di guardare alle nostre vite senza sperare. Un architetto ha il dovere di imparare da ogni incontro e guardare al futuro con la voglia di apprendere e sperare.
Nei nostri uffici di Londra e Istanbul, il processo di progettazione parte con una ricerca preliminare multidimensionale, così da analizzare i parametri esclusivi di ogni progetto e di ogni situazione. Piuttosto che puntare su un approccio stilistico reiterato o ricorrente, andiamo a ricercare nei contesti e nei luoghi quei fattori che diventeranno poi gli input più importanti durante l’elaborazione del progetto. Dati geografici, demografici, climatici, topografici, sociologici, culturali e politici rivestono quindi un ruolo di importanza vitale, a dimostrazione di quanto il contesto sia sempre basilare nella nostra ricerca.
Moschea Sancaklar
Istanbul, Turchia
Situata in un sobborgo di Istanbul, la moschea Sancaklar vuole affrontare le problematiche fondamentali nella progettazione di un edificio religioso prendendo le distanze dagli attuali dibattiti sul tema architettura, basati sulla forma, e focalizzandosi solo sull’essenzialità dello spazio sacro.
Complesso religioso MAU
Mardin, Turchia
Mardin è un’antica città dal tessuto urbano denso e intricato, situata nel sud-est della Turchia. L’obiettivo era creare un complesso religioso con spazi di preghiera per le tre religioni professate in loco (islamismo, cristianesimo e yazidismo). Il progetto cerca di coglierne l’essenza e creare uno spazio spirituale con un approccio senza tempo.
Resort hotel
Emirati Arabi Uniti
Al fine di interpretare il tessuto e la ricchezza volumetrica del luogo, l’elaborazione del progetto si è basata sui risultati delle ricerche fatte sulla città vecchia. A fronte di una location modesta, il progetto crea spazi confortevoli sfruttando le condizioni sfavorevoli del sito. Un habitat su più livelli, con diverse strutture, raggiunto dando vita a una topografia unica.
Complesso per hotel e residenze
Londra, Regno Unito
Il complesso per hotel e residenze verrà costruito in una delle zone più trafficate della città. Un centro polifunzionale, con un hotel ai piani inferiori e residenze nella porzione sovrastante. L’edificio, posto in una location che si interfaccia tra due diverse realtà urbane, sarà diviso verticalmente per attenersi allo schema strutturale.
Parco della scienza e della gioventù
Mersin, Turchia
A Mersin, importante porto commerciale nel Mediterraneo orientale, lo sviluppo urbano ha reso possibile un complesso che sarà parco urbano e luogo di svago. L’obiettivo è trasformare quest’area in una piattaforma per la socializzazione, con edifici costruiti su pilotis, progettati ponendo attenzione alle questioni climatiche e prevedendo spazi pubblici semi-aperti.
Ambasciata turca
Praga, Repubblica Ceca
Il progetto dell’ambasciata turca di Praga nasce dalla domanda su come rimanere fedeli al contesto, cercando al tempo stesso di non perdere la propria identità ottomana. La risposta è da ricercarsi nell’approccio strutturale in chiave moderna dell’architettura regionale turca, che prevedeva la costruzione delle case tradizionali a partire da uno scheletro strutturale.
St. Regis Hotel
Istanbul, Turchia
Per il St. Regis Hotel di Istanbul è stato dato grande rilievo al sito, a conferma dell’attenzione per la “situazione” che da sempre il nostro studio ripone nell’approccio architettonico. Il distretto in cui si trova venne organizzato a livello architettico con grande qualità e senso della proporzione. La massa dell’edificio segue il tessuto urbano esistente, adattandosi alle sue attività quotidiane, con il basamento che si apre al piano terra integrandosi con la vita sulla strada.
Residenze Vicem Bodrum
Muğla, Turchia
Situate su un promontorio roccioso di Bodrum, le residenze si discostano dallo stereotipo architettonico del blocco singolo di grandi dimensioni, dando particolare rilievo alle relazioni con il contesto e alle vedute panoramiche. Gli edifici si integrano infatti con il tessuto naturale, adattandosi alla conformazione del territorio e cercando di mantenere la morfologia del sito il più inalterata possibile.
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