Atteggiamento
Per fare il punto sull’assimilazione di una posizione teorica, al giorno d’oggi è necessario delinearne il “setting”, la condizione, contingente. L’architettura diventa sempre più materia di disquisizioni in cui, dietro la pressione della globalizzazione, dei media e dei dettami del consumismo, soggetti quali cinema, TV, pubblicità, eventi, design, brand e politica si scontrano tra loro in un avvincente confronto.
Il concetto convenzionale di architettura, intesa come arte costruttiva basata su radici classiche, è riproposto a intervalli ciclici, sempre per un lasso di tempo limitato e mai nel modo corretto. Per l’influenza sopracitata, tutti i fenomeni di massa si interessano dell’analisi della “archicultura”, non lasciandola più agire in autonomia. Il suo Silentium necessita sempre più di una voce: oggigiorno, l’architettura non riesce più ad assumere una posizione critica.
L’era digitale ha comportato uno slittamento paradigmatico tra rappresentazione e oggetto. Alla pratica architettonica è stata sottratta la responsabilità sociale, con la conseguente rimessa in discussione della sua missione culturale. Eppure proprio questa problematica, vale a dire la cultura del costruire in relazione a etica, teoria della conoscenza, società e politica, ha interessato tutti i filosofi, da Aristotele a Kant, da Kierkegaard ad Adorno. Compaiono le domande abituali sulla condizione e l’autonomia dell’arte e dell’architettura, sulla loro veridicità e, oggigiorno, soprattutto sul loro ruolo sociale. Ma ancora una volta il paradigma dell’interpretazione e della valutazione è il costruito e, conseguentemente, la migliore interpretazione si trova nell’architettura stessa.
La teoria come sistema di riferimento rilevante procede imitativamente oppure orientativamente, sebbene una riflessione critica non possa non riflettere sul drastico straniamento dell’oggetto. È un ri-pensare a causa della ri-produzione sopra descritta. Il critico, il pensatore, l’analista o l’iconografo, tutti si prendono le proprie (disparate) libertà riguardo all’opera, rispondendo solo sull’oggetto osservato. Il testo che ne consegue si limita a una trascrizione, come accade nelle trascrizioni di Freud delle tracce dell’inconscio e del fisico nell’attraversamento della camera a nebbia. Ne consegue che il narratore è al contempo un lettore del proprio testo, che vi s’infiltra con grande spietatezza e severità, analizzando le proprie intuizioni e il proprio bisogno di riscrivere le regole.
Un’altra caratteristica di questo clima pluralista dominante è che la natura personale dell’incontro con l’architettura, l’arte, la letteratura e la musica rimane in gran parte inarticolata. Nelle sue analisi, l’attuale teoria critica non offre praticamente alcuno spunto sull’esperienza personale nei confronti dell’oggetto. La vita del testo, quella della costruzione e la nostra esistenza si intrecciano in qualche modo? Anche la teoria della ricezione, nella propria panoramica dei diversi livelli dell’interpretazione estetica, rimane per lo più formale. Le discussioni accese ed eloquenti di Gideon, Pevsner e Banham, che analizzarono il movimento moderno, lasciano, per quanto mi riguarda, qualche dubbio. Chi cerca di esprimere il proprio sentire, rischia di esporsi all’intera gamma di conseguenze che vanno dalla confusione all’imbarazzo.
Tuttavia, oggi la modesta scena teorica trarrebbe beneficio tanto dall’impegno verso una chiarezza introspettiva, quanto da un maggiore grado di apertura. Ma la semiotica strutturale e la decostruzione sono espressioni di una cultura e di una società in cui ci si comporta in modo “cool” e si discute solo in modo asettico.
Metalinguaggio
Fondamentalmente, la teoria amplia i processi esperienziali per il destinatario. Si potrebbe sostenere che il filosofo che formula una teoria è l’autore di una narrazione in cui, pur stando al di fuori della storia che racconta, è comunque coinvolto come destinatario.
Il narratore, nel nostro caso il teorico, si avvale di un metalinguaggio, ossia di una lingua che tratta di un’altra lingua. Platone e Aristotele concepiscono questa narrazione come un’azione che dicono mimetica, dimostrativa e allusiva, intendendola come trascrizione della prassi. La sua peculiarità è nell’essere sia un consolidamento sia una purificazione dai pregiudizi del proprio tempo. Se, come in questo caso, si considera la teoria come mimesi, significa che la teoria stessa è, in un certo senso, anche illusione.
La questione riguarda quindi la narrazione in quanto esterna al narratore, il quale però ricopre un ruolo attivo nel racconto. Il teorico parla di questioni che né l’artefice né il destinatario conoscono. Ed è palese che esista la possibilità di creare fraintendimenti e confusioni se al metalinguaggio non si pone un limite. Lyotard aveva già espresso il proprio scetticismo sulle meta-narrazioni, riferendosi al loro essere al di sopra e non all’interno del racconto, etichettandole come niente più di un discorso sul discorso. Come ci ricorda George Steiner, viviamo in un’epoca in cui il commento è più importante dell’oggetto di analisi. Nell’intuire la febbre interpretativa, anche Josef Ple?nik, architetto dalla innata psicosi ansiosa, negò a France Stelé, allievo di Dvo?ák che accompagnò e venerò lo stesso Ple?nik per tutta la vita, di fornire alcun tipo di interpretazione delle sue opere. Le sue biografie infatti non ne parlano direttamente, ma sono in relazione con esse. Sono scritti che spaziano da Aristotele a Tommaso D’Aquino e che Ple?nik stesso voleva fossero “elementi distanziatori” del proprio operato. In modo simile, Freud percepiva l’insormontabile divario tra interpretazione e produzione, intesa come insieme delle opere. Nella sua teoria analitica ritroviamo sempre l’eliminazione di un’interpretazione lineare e il disaccoppiamento dal suo riferimento.
Indipendentemente dal fatto che l’ipotesi formulata dal teorico sia comprovata dalla realtà, la sua esposizione è comunque uno stimolo per l’immaginazione e l’orientamento del destinatario. L’oscillazione tra ipotesi e realtà si dimostra essere, non solo per l’architetto ma anche per il descrittore, per il teorico, un dilemma tanto ricorrente quanto avvincente, legato al definire e determinare fatti e circostanze presunti. In verità, l’architetto non necessita di alcuna teoria “accampata” sull’opera, sebbene a cuore aperto ammetta quanta fatica gli costi rinunciare allo splendore della descrizione.
Di solito l’architetto non apprezza molto quando, nei passaggi referenziali, il descrittore rivela troppo chiaramente le tracce della propria identità, né quando prevalgono segni dell’ipertrofica autoreferenzialità del teorico, come ci dice Hans Belting. Spesso risulta essere insopportabile anche l’equivalenza forzata tra nome e oggetto, che, per dirla con Wittgenstein, rappresenta solo un caso e rivela come “narratore di storie” chi parla. E ancora, quando in un’opera si vanno a utilizzare ingredienti così evidenti, facilmente leggibili e collegabili a un brand. Lo Zeitgeist reclama ripetutamente un Frank Gehry o una Zaha Hadid. Quasi mai si arriva a una vera discussione, per fare un esempio, sulla profonda e radicale poetica di uno Jørn Utzon, l’ultimo vero classico del Moderno, un architetto in grado di dominare alla perfezione spazio, luce, ombra, struttura, consistenza, epica e lirica della forma, simbolo e relativa responsabilità sociale. E ci sarebbero molte altre personalità forti, al di là delle mode, che non hanno ceduto a una linguistica e a un’iconografia esagerate. In questi casi la descrizione del “fabbricatore di teorie” fallisce, perché non è in grado di cogliere la differenza tra una posizione di base e i parametri di giudizio alla moda.
Tuttavia, lo stesso “fabbricatore di teorie” potrebbe interrogarsi su cosa sia la teoria se non un’imitazione, nel pieno senso attribuitole da Aristotele, il quale ne ha fatto una caratteristica preminente della sua poetica e l’ha intesa come rappresentazione-imitazione di un’azione.
Lo stesso filosofo greco giustificava la spinta dell’uomo verso l’imitazione, come una vera e propria necessità. A questa si sono opposti gli ultimi veri pragmatici, a partire da quelli nati dalla corrente positivista fino a Bertolt Brecht, i quali hanno teorizzato che un’opera è una cosa a sé e non necessita di echi paradigmatici.
In ogni caso, come sottolineato anche da Auerbach nel suo saggio sul realismo occidentale, il teorico considera la rappresentazione come una parafrasi e non come azione primaria. Oggi, essa regola la nostra società liquida, sia nel voler essere sopra le righe sia nel gioco ludico della Forma.
Avrebbe quindi davvero senso, nell’epoca della realtà virtuale e della simulazione digitale, auspicare più coraggio per ridefinire in modo preciso la teoria, e più audacia nell’opporsi all’autorappresentazione postmoderna e all’estetica del consumismo? Per mantenersi aggrappati alla realtà, si dovrebbe allora gettare l’ancora di salvezza in un insieme condiviso di linee guida, come quello formulato da Dvo?ák nel suo fondamentale “Catechismo per la tutela dei monumenti”? Non porterebbe questo a un universalismo e a un enciclopedismo già archiviati, il cui modello andrebbe presto a rivelarsi troppo labile per il sistema nervoso polifonico del nostro tempo? Mai come oggi, consonanze e dissonanze con i loro più disparati staccati sono state così vicine e al tempo stesso indipendenti. La città è diventata un conglomerato di esercizi linguistici. Le sue icone sono tra loro combinabili come gli strumenti di una jam session, dove i musicisti, liberi da spartiti e direttori d’orchestra, si danno all’improvvisazione sia corale sia individuale: un’armonia complessa che non dà spazio a conflitti tra libertà del singolo e interesse collettivo. Solo il gioco d’insieme, la “coralità”, raggiunge una sostanza, un valore; benché la ricerca estetica, sia qui sia in architettura, si fondi sulla trasgressione e sulla differenziazione. Un campo così sfaccettato mette in dubbio l’efficacia delle strategie di sopravvivenza di una teoria istituzionale che aspira a raggiungere un ordine universale, la quale finirebbe per risultare una mera descrizione delle differenze o una dissertazione sulle posizioni che procedono in parallelo all’interno del nuovo pluralismo di stili.
Oggi più che mai, il teorico riflessivo deve operare nel quadro di una procedura dicotomica. Da un lato, deve liberare la teoria da dogmi e instabilità, richiamando al contempo l’attenzione sull’aspetto razionale e sulla responsabilità sociale dell’architettura. Dall’altro, deve penetrare tra pori e pieghe degli ambiti interpretativi, per riconoscere e salvare l’invisibile, l’insolito e ciò che dalla realtà è rimosso. Il sistema teorico della comunicazione non può pendere solo verso il Bene senza mettere sulla bilancia anche l’ambiguità come categoria a cui ascrivere un valore.
Ma soprattutto la teoria dell’architettura non può prendersi troppo sul serio o addirittura mutare in scienza fine a se stessa. Basta pensare alla terra bruciata lasciata da Manfredo Tafuri e dai suoi discepoli a Venezia con la sua “scomunica” del mestiere dell’architetto. Una rete para-filosofica, composta tra l’altro da un’euforia di ispirazione neomarxista, derivante tra l’altro da un’incompresa Vienna Rossa fino alla parafrasi del pensiero negativo di Nietzsche, ha acuito così tanto il senso di disprezzo verso il Fare architettura, limitando addirittura la carriera universitaria del povero Carlo Scarpa alla sola carica di docente di disegno.
Una teoria intelligente nella discontinuità del tempo deve essere consapevole dei propri limiti e controllare la propria autoreferenzialità. La buona architettura è sempre immune dai manifesti, nonostante viva in lei la legittima necessità della teoria. In sostanza, architettura e teoria reagiscono rispetto al messaggio dell’opera, come fossero connesse in una sinusoide dall’alto verso il basso e viceversa, corrispondentemente al caleidoscopio dell’attualità e alle premesse interpretative, in modo offensivo e difensivo. Essendo l’architetto condannato a costruire, potrebbe anche venire parzialmente contaminato dalla teoria. Non può fare lo scaricabarile e rovesciare le responsabilità che la teoria gli ha posto, rimettendole nelle candide mani del descrittore. Pertanto il suo agire deve procedere lateralmente rispetto alla teoria, senza però perderla di vista. È come la relazione con la maîtresse, fatta di incontri saltuari, altrimenti porterebbe a un rapporto troppo assiduo e non darebbe più alcun gusto.
Riflessioni personali
Scoprii per caso Herbert Silberer, un tempo giovane sportivo e cronista della Vienna al passaggio del secolo, negli “Écrits” di Lacan e lo imputai corresponsabile di fasi sequenziali della mia maturazione. Quest’uomo, diventato poi psicoanalista, si è avvalso delle proprie tesi nel saggio “Über die Symbolbildung” (non dimentichiamoci del libro di Josef Frank intitolato “Architettura come simbolo”) per dedurne un utile approccio alla pratica architettonica. Silberer non reagisce al fenomeno degli stati di consapevolezza del pensiero successivamente convertiti in simboli. Non bisognerebbe occuparsi dell’immaginazione, bensì del processo di consapevolezza rispetto a ciò che accade, evitando così l’ossessione freudiana sul simbolo: sarebbe quindi necessario dirigersi verso l’essenza di ciò che è simboleggiato. Questa stratificazione di fenomeni materiali, funzionali e somatici esposta da Silberer è stata assunta da Lacan, il quale ne ha fatto il nucleo della propria dottrina, fondata sulla struttura del linguaggio e sull’inconscio. E proprio queste strutture, una dopo l’altra, come pietre, mattoni o qualcosa di tangibile, hanno partorito, sia dall’inconscio del Circolo di Vienna sia dalla metafisica teutonica, una verifica in termini di chiarezza mediante il mero dimostrabile.
Tuttavia, questa purificazione non si è spinta così lontano, come aveva formulato Wittgenstein nel suo “Tractatus”, secondo cui tutte le affermazioni filosofiche sono in realtà insignificanti e tuttalpiù il solo filosofare può avere un senso. D’altra parte, secondo lo stesso Wittgenstein, tutto è comunque spiegabile dalla scienza. Per un piccolo gruppo di architetti emergenti, ciò ha comportato che il rigore della ricerca scientifica venisse esteso anche all’approccio teorico nei confronti dell’architettura. Per me, che provenivo da un altro mondo, questa purificazione così radicale fu in verità troppo estrema, poiché avrebbe significato sbarazzarsi dell’intera architettura rinascimentale e barocca, figlie del delirio di rappresentazione di matrice cattolico-papista.
Sulla scena non apparse il dandy Wittgenstein, bensì Rudolf Carnap, il quale diffondeva la filosofia come disciplina orientata alla scienza, attribuendo unicamente a questa una validità esistenziale. Qualsiasi atteggiamento metafisico è stato da lui definito come “poesia concettuale”. Il principio di tolleranza del suo pensiero si basava su un vuoto che deve essere occupato individualmente, purché il pensiero di base fosse determinato da definizioni sintattiche e non da considerazioni astratte.
Nel complesso, il Manifesto di Vienna con Moritz Schlick, Otto Neurath, Rudolf Carnap ed Ernst Mach è stato un movimento libero, una questione più di carattere accademico e universitario. L’empirismo logico su cui poggiava una concezione del mondo scientifica aveva come obiettivo una radicale trasformazione della società, una cosa allora per noi determinante. Per un architetto, questa era, come la chiamava Carnap, l’eliminazione dei “problemi illusori” dalla teoria della cognizione, caratterizzata da una concretezza così vicina alla prassi, alla nostra prassi, da favorire un agire strutturato e consapevole, indipendentemente da una valutazione dell’approccio filosofico.
Grazie all’impulso dato da questo tipo di estetica pratica, abbiamo scoperto anche un parallelismo (a prescindere dal fatto che fosse o meno dimostrabile a livello scientifico) con il processo compositivo razionale di Adolf Loos e con il suo “Raumplan”, teso a una stratificazione precisa e gerarchica di nuclei spaziali; da qui una precisa sensibilità nel verificare la qualità di vita e la relativa materialità. Essendo stati formati da docenti internazionalisti a livello architettonico, senza però approfondirne il lato culturale, Loos si rivelò un utile strumento. La seguente contaminazione del bianco del Moderno attraverso Semper e il suo “tessere policromo”, potrebbe fare da seguito a questa storia. Sebbene fossero contraddistinti da grande rigore metodologico, questi precursori non furono in grado di fissare né la posizione, né l’oscillazione paradigmatica della teoria. Tuttavia, si rivelarono essere un utile strumento di protezione e contrasto nei confronti degli scenari scenografici, ermetici e computerizzati, accompagnati dal solito brand turbocapitalistico.
Boris Podrecca
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