Pre e post
La crisi finanziaria globale del 2008 sarà certamente ricordata non solo per gli eventi disastrosi che l’hanno causata, ma anche per le sue gravi ripercussioni che in gran parte hanno accompagnato lo Zeitgeist nella definizione dell’epoca attuale a partire da quella tragica data. Tale periodo, successivo ai fatti dell’11 settembre e antecedente alla più grande disfatta dell’economia mondiale dopo la Grande Depressione degli anni Trenta, è stato caratterizzato dalla necessità di ponderare attentamente ogni decisione sulla vita economica e culturale. Come gran parte delle crisi planetarie, o almeno quelle in grado di intaccare l’asse di crescita finanziaria, quest’ultima ha segnato uno spartiacque tra la situazione mondiale pre e post 2008.
Tra il 2002 e il 2008, l’economia è cresciuta a ritmi impressionanti, soprattutto in Cina, dove si ritiene fosse concentrato addirittura l’80% dei cantieri nel mondo. L’Asia in generale si è sviluppata rapidamente, basti pensare al numero di architetti contattati ogni giorno per la progettazione su larga scala, architettonica e urbanistica. Paesi in precedenza sconosciuti come il Kazakistan hanno messo mano alle proprie risorse minerarie, favorendo forme di speculazione in grado di minare seriamente la cultura locale, oppure subendo a malincuore le influenze occidentali. Nel Nord America, invece, New York si è ridestata dopo decenni di torpore: il gigante tra i giganti, di ritorno da un lungo letargo e bramoso di riconquistare la propria egemonia quale Fulcro dell’Universo, titolo a cui in realtà non ha mai rinunciato. In questo periodo allo studio NMDA sono stati commissionati, seppur in momenti diversi, diversi progetti nelle due aree continentali: edifici di lusso per soddisfare il crescente fronte di benessere mondiale da un lato, una serie di banche in Giappone sede delle società della nuova classe agiata dall’altro. Come per chiunque altro, l’era del pre stava finendo anche per il nostro studio. Nel post 2008 ci si è invece dovuti misurare con condizioni disastrose ed è stato necessario adottare nuove etiche, la cui natura non era totalmente chiara. Tuttavia era sotto gli occhi di tutti l’emergere di un nuovo stato d’animo diverso dall’ansia figlia della disperazione o dalla strana consolazione acquisita dalla consapevolezza di essere tutti nella medesima situazione.
Nulla sarà più come prima
Oggi tutti conosciamo quel preciso stato d’animo, caratterizzato da azioni e pensieri necessariamente calibrati su un passato in cui, consci o meno, si era liberi dalla schiavitù di quel rigore formale imposto alla cultura dagli eventi catastrofici. Mai sino ad allora si era presentato un così immediato desiderio di far rifiorire l’economia a seguito di eventi sconvolgenti. L’11 settembre ha segnato la violazione delle libertà e, in teoria, è logico pensare che la loro riconquista abbia di conseguenza richiesto la creazione di nuove identità, dall’individuo alla collettività, come obiettivo da raggiungere anche a ogni costo. Le nuove capacità di mercato, migliorando lo stile di vita dei singoli o arricchendo con opere monumentali gli spazi urbani, hanno così soddisfatto in modo meticoloso le ambizioni di tutti o quasi, grazie a un rinnovato senso di legittimazione economica che, a distanza, non era altro che un’euforia dettata da un periodo storico di grande sviluppo. Soffermandosi su “Week-end”, film del 1967 di Jean Luc Godard, nello specifico sulla critica contro la cultura consumistica presente nell’aforisma “La libertà è violenza”, si può affermare che, nel nostro caso, la frase potrebbe essere rovesciata: la libertà violenta è espressione di Capitalismo.
E se si fosse inconsapevolmente insediata una nuova amoralità capace di dare inizio a un periodo di totale apatia caratterizzato dalla repulsione verso regole e limiti in favore dell’opportunismo e della mitigazione delle paure? Si sarebbe finalmente potuto asserire che qualsiasi cosa sarebbe stata possibile? Denaro e tecnologie si sarebbero assestati sullo stesso livello così da realizzare ogni fantasia? Gli architetti si sarebbero finalmente liberati dal clima claustrofobico del rispetto delle teorie che ha segnato gran parte degli anni Novanta, così da poter agire senza restrizioni disciplinari? Anche nella forma meno estrema, la risposta sarebbe comunque sì; ed è proprio tale affermazione che ha portato a un’inesorabile stravolgimento della scala dei valori culturali a partire dal 2008.
Se l’11 settembre ci ha sfidato nel comprendere cosa significa essere al sicuro nella società contemporanea, il crollo del 2008 ha stravolto il nostro modo di vivere, ricollocando lo stile di vita in controtendenza con il passato e in linea con libertà, possibilità e, soprattutto, tentazioni. Non è infatti un mistero che le potenze economiche stimolino i piaceri repressi delle varie culture, eccitandone i sensi e facendosi strada nella promozione di un modello di progresso solitamente associato più all’accumulo che alla limitazione. Le successive introspezioni e riflessioni personali hanno ovviamente messo a nudo ogni vulnerabilità e sviscerato gli effetti collaterali delle decisioni intraprese. Dopo il crollo, chi si è ritrovato senza nulla non ha avuto alternative alla sofferenza concreta, mentre coloro che hanno trovato altri metodi di sopravvivenza hanno iniziato a scacciare i demoni del consumo. Come è possibile evitare gli eccessi consumistici in un periodo di (apparente) prosperità e senza certezze per il futuro? Come sfruttare al meglio razionalità ed empatia verso chi ha meno per controllare il desiderio di strapotere economico? Come far sì che ciò che realizziamo o progettiamo rifletta i nuovi valori imposti dall’austerità dell’epoca attuale? Queste domande, che albergano nella mente di chiunque ai giorni nostri, sono gli stessi interrogativi venati di rimorso che, a loro tempo, hanno assalito molte culture primordiali nel mondo, in particolare quelle dotate di un certo grado di considerazione dell’essere umano in quanto membro della società. Questa, tuttavia, è solo la versione più recente di un problema sociale e politico ben più vasto e risalente alle rivelazioni post-marxiste del 1960 a opera, tra gli altri, di Roland Barthes e Jean Baudrillard, fautori di un quadro semiotico per la nuova cultura consumistica. Baudrillard, sia nella sua prima opera di spicco, “Il sistema degli oggetti” (1968), sia in “Lo specchio della produzione” (1973), ha criticato aspramente il consumo, dichiarandolo oggetto di dibattito tanto fatale quanto inevitabile, ma che tuttavia avrebbe di continuo caratterizzato il suo seguente manifesto su mass media e simulazione, frutto del suo rapporto conflittuale con l’immagine. A quarantacinque anni di distanza, nelle contemporanee società liberali, questo stesso problema rimane profondamente connesso a comportamenti, identità, rappresentanze politiche e sociali.
Ciò che è costruito, acquistato, consumato, gettato o conservato può essere inteso come un diagramma, se non addirittura una mappa completa di ciò che risulta culturalmente interessante in un dato momento storico. Richiamando Barthes, ogni cosa legata alla sfera della cultura è costretta a mutare in segno, di conseguenza qualsiasi azione che incide sul mondo materiale collabora alla creazione di un’identità della Gestalt, figlia di interpretazioni sempre più complesse dei segni stessi, a loro volta responsabili dell’affermarsi di una realtà amplificata. Infatti, per “cultura materiale” si intende, tanto in passato quanto al giorno d’oggi, non solo un’espressione di tecnica e produzione, ma innanzitutto e soprattutto una cultura del significato. Nel suo libro “Il delitto perfetto” (1995), secondo Baudrillard l’uomo si attiva nella ricerca di una dimensione reale poiché ne sente la mancanza, senza però accorgersi di vivere già in essa. Grazie alla tecnologia si è addirittura raggiunto un eccesso di realtà tale da suscitare più ansia e sconcerto della sua stessa mancanza. Nel settembre 2008, lo specchio magico in cui abbiamo scrutato l’illusione della prosperità si è improvvisamente frantumato, lasciandoci le ferite della sua distruzione. Si è trattato di un momento di forte civilizzazione, la cui causa (o effetto, a vostra discrezione) è per molti dovuta alla presenza di un eccesso di realtà e segni che ricordano l’esagerazione. In una cultura dove ogni oggetto è obbligato a prendere parte a un sistema di significati, qual è la forma espressiva responsabile della produzione degli oggetti più imponenti e costosi? L’architettura, ovviamente.
Le colpe
Nessuna organizzazione, professione, cultura o mezzo di informazione si è astenuto dalla ricerca di un colpevole per le ripercussioni che hanno travolto le nostre vite dal 2008. Sulla carta, la storia si accanirà contro falsificazione, sopravvalutazione, dubbia solvibilità bancaria, Wall Street e una miriade di altre istituzioni finanziarie, ma là fuori, nel mondo reale, qualsiasi cosa viene imputata come responsabile del crack, specialmente gli emblemi architettonici del progresso culturale, frutto dell’accumulo e della circolazione di denaro, tecnologie e propositi (positivi o negativi che siano). In questa fase di ritorsione, precedente alla creazione di nuovi principi etici, molti hanno puntato il dito contro i segni più grandi ed evidenti.
Di conseguenza, anche l’Architettura avrebbe dovuto entrare nel vortice del declino, non solo in quanto veicolo di estremo consumo (come da sempre), ma anche in ragione di una nuova etica ecologica distante anni luce da svariate opere, tanto ammirate in passato quanto schernite oggi poiché vuote, pompose ed eccentriche. Dopo un decennio di libertà quasi assoluta nella sperimentazione, in cui i desideri degli emiri sono diventati una fonte di opportunità per gli architetti, oggi le varie architetture spettacolari (tanto nel bene quanto nel male) sono invece disprezzate. Se il mondo ha dovuto ridimensionarsi, se ci si è dovuti sbarazzare di quanto non solo consumava troppo, ma risultava anche essere troppo aggressivo a livello di impatto visivo, allora l’architettura è dovuta diventare il simbolo di tutto ciò che è in contrasto con sfarzo ed eccesso; di conseguenza le icone non sono state più tollerate. Almeno in apparenza.
Una seconda chance
Immaginate un gruppo di persone (diciamo con fare piuttosto losco) intente a rinchiudere in scatole di calcestruzzo una serie di riproduzioni delle recenti architetture iconiche, per poi abbandonarle alle correnti di un oceano sconosciuto. Una dopo l’altra, ogni scatola gettata in mare affonda nelle oscure e turbolente acque, divenute così il giaciglio di eterno riposo dell’architettura pre 2008, segnata da una fine tanto drammatica quanto priva di cerimoniali. Proprio come accade con le bambole voodoo, la scomparsa di ogni riproduzione sarebbe magicamente coincisa con l’effettiva distruzione dei corrispettivi presenti nel mondo reale. A volte, nel tempo, tali scatole sfidano però la gravità e ritornano a galla, trascinate dalla corrente e abbandonate sulle coste dei vari continenti. L’icona, di fatto richiamata in gioco da alcuni settori culturali incapaci di vivere senza l’abilità dell’architettura di trasformare la genialità, si ripropone suscitando tanto lo stupore in chi è ancora interessato alle sperimentazioni, quanto la mestizia in chi si augurava che l’architettura potesse farsi largo in un mondo senza icone. Nell’aprire le scatole, le rappresentazioni sono apparse come una copia sbiadita del passato, poiché contraddistinte da toni più contenuti, raffinatezza e criterio d’esecuzione. Se fosse dato loro modo di rilanciarsi, non sarebbero più una fonte di business per l’industria iconica. Come si suol dire, a volte è necessario guardare in faccia la morte per fare un cambiamento radicale.
Solo cospirazioni... con un fondo di verità?
Una teoria cospirativa appropriata e altamente persuasiva rispetto alla scomparsa dell’icona potrebbe recitare così: in occasione della bancarotta di Lehman Brothers, gli ultimi residui dell’architettura mondiale sono stati il Watercube e il Bird’s Nest delle Olimpiadi 2008 di Pechino, terminate il 24 agosto, a soli 20 giorni dall’inizio della fine. Se prima della crisi l’immagine del progresso cinese (e dell’inventiva degli architetti australiani e svizzeri) era simboleggiata da questo duo accattivante di edifici telegenici, dopo il crack lo stesso duo è diventato un segno di eccesso. Il Watercube, i cui cuscini in ETFE dalle forme affascinanti richiamano alla mente la schiuma delle onde marine (così da soddisfare l’interesse cinese per l’iconografia narrativa), ora sono solo una metafora di esagerazione tecnologica.
Il Bird’s Nest è invece un segno dalla grande negatività: sembra infatti un nido vuoto, abbandonato dagli uccelli decisi tanto nel lasciarsi alle spalle un habitat artificioso e contaminato, quanto nel dirigersi verso mete naturali. Senza nessuna responsabilità diretta da parte degli architetti in questione, tali progetti sono stati denigrati da molti, venendo catalogati come emblemi non di progresso, bensì di arroganza. Purtroppo, a causa dell’incapacità della Cina di dare nuova linfa vitale a questi edifici dalla mole imponente e praticamente inutilizzati, tali strutture sono state sacrificate in nome della causa.
In relazione ad altri eventi, dibattiti ed edifici, ovviamente si potrebbero ipotizzare e sostenere altre cospirazioni legate alle aspre critiche piovute sull’architettura da più fronti, sia dall’interno sia dall’esterno della professione. Il Museo Guggenheim di Bilbao di Frank Gehry del 1997 è stato usato in tutta la sua eponima “efficienza”? La tecnologia computerizzata ha forse annebbiato il giudizio razionale o sovvertito nel profondo i metodi di disegno tradizionale tanto spontanei quanto consolidati? Le grandi firme non sono diventate di troppo? Si è forse trattato di un tentativo di repressione della generazione del ‘68 prima del completamento di altre opere “radicali”? Qualsiasi risposta a tali quesiti è già stata, in un modo o nell’altro, sfruttata come spiegazione o almeno come monito nel sottolineare il perché la cultura debba esistere solo in un mondo post-iconico. Ma se torniamo alla nostra breve storia sulla rinascita dell’icona, la cultura ha nuovamente interpellato gli architetti per muovere mari e monti, rivitalizzando le città con la stessa energia ed effervescenza del passato, seppur con una precisazione: le nuove icone devono essere sostenibili a livello culturale e ambientale. Chi nella propria rettitudine avrebbe il coraggio di opporsi o sottrarsi a tale sfida?
Cosa ci riserva il futuro
La discussione sulle architetture iconiche quali simbolo di corruzione nell’ultima era di boom economico è arrivata a essere (almeno per un breve periodo) di dominio pubblico, finendo tra gli argomenti di dibattito tra i clienti impegnati nel riflettere sul valore della diversità in architettura. Molti di loro non erano disposti, almeno in apparenza, a rimettere piede così velocemente in acque rese pericolose dall’esaurimento dell’estetica. Tuttavia, seppur con una leggera trepidazione, altri committenti si sono curiosamente rimessi in gioco, armati di nuovi valori in grado di rimpiazzare impeto e supponenza con analisi e sensibilità, mantenendo comunque la giusta arroganza, indispensabile per i grandi progetti. Se Cina e Medio Oriente hanno continuato a perseguire l’icona quasi ininterrottamente (per esempio Abu Dhabi si è sostituita a Dubai), altre regioni dall’economia pulsante e vitale (quali Russia e Brasile) hanno invece denigrato la globalizzazione della progettazione, riducendola alla mera ricerca di una firma di prestigio (e quindi a una pura espressione di benessere) e paragonandola a un processo di logica economica che porta con sé nuovi valori teorici dell’estetica. Le nuove richieste sottoposte agli architetti, ora non più liberi da restrizioni come nel pre 2008, si imperniano sulla costante riproposizione dello stesso interrogativo, sebbene venga reclamato in modo diverso dal passato, ovvero: qual è l’icona della nuova generazione in grado di rispondere sia alla moderazione sia all’ordinaria richiesta di unicità? Che tipo di architettura potrebbe rappresentare l’abbandono di una fastidiosa ostentazione, in favore di un’affascinante originalità? Il mondo post 2008, impassibile dinnanzi alle feroci critiche nei confronti di stile ed espressione, ha mostrato il proprio entusiasmo per un design intelligente, sopprimendo ancora una volta l’immagine negativa che circonda l’estetica, al fine di promuovere l’architettura quale disciplina trasformativa, non quale veicolo di trasmissione del proprio ego. Oggi è infatti interessante constatare come sia proprio la cultura (mercato speculativo compreso) a richiedere un ritorno dell’icona e non siano gli architetti a spingere in tal senso per il piacere della pura espressione estetica. Nel costante desiderio di vedere trasposte in futuro almeno parte delle proprie intenzioni, individui, città e organizzazioni si prodigano infatti in modo più razionale nel contattare gli architetti per progetti accattivanti e di lunga durata.
La stragrande maggioranza di incarichi o concorsi pone come presupposto un’ambigua richiesta iniziale: creare un’icona mondiale in grado di racchiudere le singolari peculiarità che caratterizzano progetto e contesto dell’edificio “x”. Infatti, mentre il resto del mondo è impegnato nel decretare la fine dell’icona, molti clienti e organizzazioni stanno sottoponendo all’attenzione degli architetti progetti con elementi tra loro in contraddizione, invocando opere tanto sublimi quanto sostenibili. In questi termini, allora, l’icona non viene governata dalla seccante moralità delle politiche neo-liberali, ma appare mitigata dall’ottimismo con cui l’estetica, per ironia della sorte, si ripropone nuovamente in qualità di fattore determinante. Nonostante la creazione di case energetiche, l’architettura è e rimarrà sempre perseguitata dallo spettro della distruzione ambientale. Tuttavia è doveroso constatare che ha avuto la forza non solo per sopravvivere ai periodi più neri dell’economia dagli anni Trenta in poi, ma anche per ricercare nuovi obiettivi, così da alimentare le speculazioni promosse dalle culture anticonformiste. L’icona, sebbene sia solo una parte del nuovo sistema di architettura, dovrebbe farsi simbolo di tale disciplina senza ripercorrere gli errori del passato, abbandonando quindi eccessi ed esagerazioni. Questo problema ha infatti attanagliato il pre 2008, periodo in cui l’architettura si manifestava unicamente in due forme: spettacolare e rispettosa (quanto al rispettosa, la professione veniva ironicamente esercitata in un contesto privo di qualsiasi rispetto). Oggigiorno il dibattito può essere ancora incentrato sul ruolo dell’estetica, vivendo in un’era in cui l’icona può assumere forme svariate e farsi largo in modo più rivoluzionario che mai. Dopo essere stata trascinata a riva, è entrata nell’ultima fase di un processo altamente attraente e stimolante: l’icona post 2008 non è più un elemento a sé, ma è un fattore integrato e imprescindibile nel contesto della produzione architettonica.
Epilogo
In allegato a questo testo sono illustrate alcune competizioni a cui ha preso parte NMDA e diversi progetti commissionati allo studio a partire dalla fine del 2008. Ciascuno di essi ha risposto in maniera unica alle esigenze di un’architettura iconica. Negli ultimi cinque anni abbiamo preferito ampliare il nostro repertorio in materia di design, a discapito della riproposizione di immagini o brand passati. Ci siamo mostrati aperti verso le stravaganze temporali e spaziali, tralasciando abitudini o consuetudini a noi familiari. Nel complesso ci auguriamo che, anche in presenza di una nuova etica promotrice dell’ampliamento delle vedute in contesti operativi, vi sia comunque coerenza nella grande diversità. In un modo o nell’altro è sempre emersa una particolare sensibilità.
Neil Denari
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