Nel passato gli architetti imparavano a progettare facendo lavorare insieme occhio, mano e mente: era un tempo in cui apprendere significava innanzi tutto sviluppare nuove tecniche pratiche di progettazione. Questo approccio tuttavia non è più valido in una professione che ultimamente ha subito una notevole evoluzione del suo ambito di intervento, delle sue esigenze e quindi in definitiva delle sue possibilità. Analogamente, non possiamo più continuare a dare peso principalmente all’estetica. Ormai da tempo l’estetica non possiede più quel significato onnicomprensivo di cui godeva sia in architettura sia in un più ampio contesto culturale: oggi, in architettura, la bellezza è diventata per lo più una forma di sana provocazione che permette all’architetto di relazionarsi con altre discipline creative come l’arte, la moda, la letteratura.
Negli ultimi anni l’ambito della professione si è considerevolmente ampliato per quel che riguarda responsabilità e requisiti funzionali. Nella pratica corrente, ora più che mai, dobbiamo ragionare in termini di utilizzazione ottimale dello spazio, di validità dei modelli, della priorità di incorporare modalità costruttive sostenibili, a fianco di considerazioni e vincoli di ordine economico e globale.
Nella pratica contemporanea tale incremento degli ambiti di intervento comporta che al giorno d’oggi gli architetti siano chiamati non solo a risolvere complessi rapporti strutturali, ma anche a integrare coerentemente molte variabili. Non è più possibile affrontare la costruzione di un edificio soltanto come un’entità autonoma e indipendente o come sintesi di elementi diversi, cioè unicamente come struttura, facciata o “immagine” iconica: l’architetto contemporaneo è chiamato a creare un’architettura il più possibile integrata e olistica. Per raggiungere questo obiettivo è però necessario rifarsi a un criterio di valutazione molto articolato che implica la sintesi di un ampio spettro di varianti, informazioni e conoscenze: un giudizio esperto.
Come superare dunque questo presunto divario fra l’obiettività dell’aspetto funzionale/utilitario e la soggettività del momento innovativo/espressivo ed esperienziale, entrambi inerenti ed essenziali alla professione? Per integrare la conoscenza empirica con il costante apporto fornito oggi alla progettazione e alla produzione architettonica da una scienza e una tecnologia in continua evoluzione, dobbiamo avvalerci di un giudizio esperto: un metodo di interpretazione critica empirica abbinato allo sviluppo di abilità critiche alternative.
Il giudizio esperto può essere interpretato quindi come la costante ricerca di un equilibrio fra momento soggettivo (connesso alla progettazione) e momento oggettivo (relativo alla costruzione). Tuttavia, quando analizziamo in profondità i processi coinvolti nella formulazione di un giudizio, notiamo che forse incorriamo in un errore ipotizzando che tra l’aspetto artistico e autonomo del costruire e la sua dimensione tecnica e funzionale debba necessariamente esistere una tale tensione. Suggerirei, piuttosto, di non dare per scontata questa tensione ma di valutare questo contrasto percepito tenendo conto anche dei numerosi e complessi meccanismi psicologici che si verificano sia consciamente sia inconsciamente nel processo di giudizio.
A questo proposito sono forse pertinenti gli studi degli psicologi Daniel Kahneman e Amos Tversky, pionieri della psicologia cognitiva, che postulano una dicotomia tra due modi diversi di pensare e sostengono che in realtà si pone una fiducia eccessiva nella razionalità del giudizio umano.1 Secondo la teoria di Kahneman e Tversky nel momento di operare una scelta gli individui seguono un comportamento non lineare lasciandosi coinvolgere da pregiudizi; essi confutano quindi la convinzione - propria degli sociologi degli anni Settanta - secondo la quale “gli individui sono generalmente razionali”. Questa tesi gioca un ruolo fondamentale nell’indagine sulla comprensione delle complessità implicite nel processo di scelta. Introduce inoltre il quesito se la capacità di valutazione possa, o meno, essere acquisita, oppure se possa comunque trarre vantaggio dalla consapevolezza dei processi mentali coinvolti nell’atto di operare una scelta e quindi essere addestrata ad attivarsi solo all’interno di parametri condivisi. Sosterrei la seconda tesi. L’estesa ricerca di Kahneman e Tversky ha evidenziato “errori sistematici nel processo cognitivo degli individui normali”, ma ha anche riscontrato che questi errori non derivano solo dalle distorsioni prodotte dall’emotività, ma che in realtà hanno origine all’interno del nostro meccanismo cognitivo. Questo fatto suggerisce una forma di adattabilità nello sviluppo del giudizio, ma l’architetto, oggi, può in ultima analisi solo tener conto e fare assegnamento su questa analisi psicologica in quanto attinente all’attuale condizione umana.
Più pertinente per quanto attiene la questione riguardante l’apparente opposizione fra soggettività e oggettività è forse l’individuazione da parte di Kahneman e Tversky di due sistemi di ragionamento distinti, ma in realtà collegati tra loro. Definiscono il primo (sistema 1) come automatico, veloce, stereotipato e ampiamente subconscio. Il secondo (sistema 2) come lento, deliberato, logico, consapevole e faticoso. Questo primo postulato suggerirebbe una netta separazione fra i due sistemi. Tuttavia, i due psicologi precisano che, mentre il sistema 1 impiega l’associazione e la metafora per giungere velocemente alla comprensione della realtà, il sistema 2 si ispira a livello inconscio alle valutazioni del sistema 1 per arrivare a determinate certezze e a scelte ragionate. Per semplificare, se accettiamo le teorie di Kahneman e Tversky, significa che ciò che percepiamo come pensiero puramente obiettivo è in realtà guidato dal subconscio e influenzato dal soggettivo.
Quindi come applichiamo questa lettura del processo di scelta all’architettura e alla progettazione? E come può essa influenzare e diventare parte integrante del processo decisionale dell’architetto? L’idea progettuale non può naturalmente servirsi solo del pensiero razionale o del calcolo, in quanto così introdurrebbe un metodo di comunicazione unidimensionale con il ricevente. Se il fine ultimo della progettazione, al di là della funzione puramente pragmatica, è quello di dichiarare come l’opera sarà percepita e vissuta dall’utente finale, allora l’architetto deve assimilare e sintetizzare l’astratto e il figurativo all’interno del processo progettuale al fine di creare edifici che siano funzionali a molteplici livelli esperienziali.
Da sempre il sofisticato sfruttamento consapevole (o semi-consapevole) della percezione visiva è stato prerogativa propria dell’artista: se l’obiettivo di un’opera d’arte è primariamente quello della comunicazione, allora l’artista deve possedere una certa competenza su come manipolare la potenziale lettura di un’opera d’arte, su come ottenere un riconoscimento immediato psicologico e soggettivo, stimolando al tempo stesso una risposta cognitiva più impegnata guidando in tal modo il fruitore verso una comprensione dei concetti e delle idee sottese all’opera oppure, viceversa, stimolare emozioni e interpretazioni individuali. Si potrebbe dire che l’artista dapprima coinvolge lo spettatore attraverso l’intrigo visivo, ma una volta riuscito a catturarlo, provoca immediatamente una miscela di processi cognitivi e di pensiero associativo, metaforico e inconscio. Ed è questa assimilazione di processi di pensiero che porta infine all’interpretazione individuale dell’opera.
I quadri specchianti realizzati da Michelangelo Pistoletto negli anni Sessanta e Settanta forse offrono un’esemplificazione appropriata del dualismo di questi processi cognitivi, applicato alla percezione di un’opera d’arte. In modo particolare, le sue immagini fotografiche di figure umane riportate con un processo serigrafico su lastre di acciaio lucidato a specchio focalizzano inizialmente la nostra attenzione di osservatori su queste figure a grandezza naturale, sulla loro superficie bidimensionale e su come ci guardano dall’interno dei confini della loro “tela”. Tuttavia, avvicinandoci vediamo aggiungersi il nostro stesso riflesso all’interno del quadro, in uno spazio altrimenti astratto. Quando vediamo il nostro sguardo rivolgersi a noi dall’interno della cornice si verifica uno scarto che, per così dire, modifica lo sguardo da uno stato passivo e recettivo a uno razionale, originato dal desiderio di dare un senso a questa deviazione della percezione. Questo gioco di percezione crea il bisogno in chi guarda di comprendere razionalmente ciò che vede e sperimenta. Ma, forse, altrettanto importante a questo proposito è il fatto che fondamentalmente la distinzione semantica fra il significato del termine ‘riflesso’ come percezione di una somiglianza visiva e come atto di contemplazione mentale è proprio il luogo dove Pistoletto crede si debba trovare l’armonia fra il vedere e il pensare.
In architettura, tuttavia, dobbiamo naturalmente aggiungere a questa equazione la funzionalità. Fondendo l’astratto e il figurativo, l’aspetto tecnico e quello creativo della professione, possiamo arricchire di molto l’architettura, favorendo l’insorgere all’interno del processo progettuale di momenti inaspettati di innovazione e creatività. Ne consegue la possibilità di introdurre l’elemento illusione e l’idea di obliquo tra gli effetti psicologici di spazi trasformativi. Esperienze spaziali ed effetti figurativi multipli possono emergere grazie alla comprensione e all’impiego del pensiero complesso e delle tecniche di progettazione. In questo modo l’architettura può suscitare interpretazioni paradossali e offrire esperienze spaziali complesse.
La progettazione di padiglioni come banco di prova temporaneo per questi processi può rivelarsi molto utile, non solo come modello per sperimentare materiali o tecniche costruttive, ma anche come modello di pensiero, come costrutto intellettuale. Il padiglione è di per sé l’estensione di uno strumento del disegno e può fungere da possibile apparato per la progettazione. Il padiglione può essere visto come agglomerato, nel senso di somma di molti ingredienti architettonici diversi che interagiscono e si influenzano a vicenda, senza tuttavia offrire ancora una perfetta sintesi applicabile a un progetto costruttivo più ampio e complesso. Pregi interni ed esterni possono essere testati e combinati nella struttura temporanea e portare in seguito a concept e soluzioni pratiche che altrimenti non sarebbe stato possibile testare in un edificio. I padiglioni possono costituire un prototipo, un insieme di idee e soluzioni da sviluppare in seguito.
Anche se il giudizio esperto richiede la conoscenza degli effetti psicologici e della lettura dello spazio, è importante notare che in alcun modo ricorre a stereotipi o propone modelli ottimali o infallibili per l’architettura. Il giudizio esperto, in architettura, è una forma di analisi, di riconoscimento di schemi e di un processo di scelta correlati al modo con cui indirizziamo l’informazione nel processo progettuale. L’ampio spettro di informazioni e conoscenze di cui l’architetto oggi dispone richiede in definitiva l’agevolazione di un approccio critico e l’elencazione di tutti i parametri, irregolarità e valori al fine di facilitare nuove scelte relazionali che, inevitabilmente, attraverso le abilità acquisite, combineranno in un tutt’uno omogeneo gli elementi necessari a creare un progetto che alla fine semplicemente “funziona”. Ed è questo approccio critico che io definisco, per l’architetto, come giudizio esperto.
La questione è se un tale approccio possa essere insegnato o se debba rimanere il privilegio del professionista anziano, con anni di esperienza e numerosi progetti costruiti al suo attivo. Sarei dell’opinione che in certa misura possa e debba essere insegnato ai futuri architetti. Senza tralasciare l’imprescindibile necessità dell’esperienza, un giudizio esperto a livello basico richiede la capacità di riconoscere i cambiamenti e la molteplicità di nuove possibilità all’interno della professione e di agire di conseguenza. Inoltre, la teoria dell’architettura è sempre stata considerata l’aspetto più importante nell’apprendere la pratica; tuttavia, se non si insegnano i più recenti sviluppi scientifici in tutta la loro complessità e diversità, non si insegna a progettare. Per poter guidare gli studenti nel processo di progettazione non è solo necessario impartire conoscenze e incoraggiare la ricerca nell’ambito tecnico della professione, ma è fondamentale insegnare loro anche a operare delle scelte, a selezionare, adattare e fondere aspetto tecnico e aspetto creativo.
Il giudizio esperto, quindi, richiede di “mettere attivamente in pratica la teoria”: è uno scambio fra il fare all’interno della pratica e la teoria, che alla fine devono andare di pari passo. Riguarda la comprensione della realtà in tutti i suoi aspetti che poi va riversata nella realtà stessa. Inoltre, pur essendo un metodo attivo e dinamico di giudizio che esalta la scelta, fondamentalmente è anche una forma di riconoscimento guidato dall’esperienza all’interno del nuovo contesto di un’architettura che ricopre un ambito più vasto.
Ben van Berkel
1- Daniel Kahneman. “Thinking, Fast and Slow”.
25 Ottobre 2011, Macmillan. ISBN 978-1-4299-6935-2
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