“Un edificio dotato di finestre di una dimensione che permette un corretto illuminamento, può essere un’opera di architettura oppure no. Ma se un edificio è dotato di finestre decisamente troppo piccole o troppo grandi, allora si può essere quasi sicuri che ci si trovi davanti ad uno sforzo architettonico”. Questo semplice canone fu formulato da Gilbert Scott intorno al 1850. È possibile che tale metro di giudizio rimanga oggi un utile strumento di analisi per chi provasse a definire l’architettura nella cosiddetta era digitale? I parallelismi sono sempre problematici, ma la domanda sembra pertinente in un’epoca in cui la confusione semantica dei nostri giorni ha reso difficile stabilire cosa sia architettura e cosa non lo sia. Una confusione dovuta a un cambio di natura, o look? L’identità si confonde. Talvolta si maschera. Un cambio radicale nella cultura? La ricerca di aperture sovra o sottodimensionate potrebbe essere un utile elemento d’indagine per chi, uscendo da Milano alla guida di un autoveicolo, fosse alla ricerca di indizi di sforzi architettonici. L’ipotetico viaggiatore, imboccata la Via del Mare, si troverebbe dapprima di fronte allo stupefacente esercito ordinato di lucernari fuori-scala che caratterizzano il deposito ATM di Vico Magistretti - il quale pensava che l’architettura fosse quella che “sapeva invecchiare con nobiltà” - e inizierebbe a porsi delle domande. Poco distante, sul lato orientale del proprio percorso, il viaggiatore avrebbe un’apparizione. Nel suo campo visivo si materializzerebbe un nuovo bastione (già soprannominato porta-aerei) su cui sono “parcheggiate” alcune forme primarie deformate perpendicolari al senso di percorrenza, come a cadenzare il percorso. Con tutta probabilità, la “porta-aerei” lo indurrebbe a girare la testa per comprenderne le diverse volontà di forma, o Kunstwollen, che ne punteggiano gli elevati. Forse anche nel tempo digitale l’architettura presuppone un elemento di teatralità ed esagerazione? L’urbanità...
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