Non è facile parlare di un progetto che giunge a (parziale!) compimento quarant’anni dopo l’incarico e i primi disegni, vent’anni dopo l’illusorio completamento del primo lotto. Soprattutto se l’edificio è parte cruciale di uno di quei nodi (in gola) concettuali che investono collettivamente la nostra cultura architettonica. La storia è nota: dopo il terrificante terremoto che nel 1968 devasta il Belice un sindaco progressista e illuminato, Ludovico Corrao, decide di ricostruire la nuova Gibellina come una new town spostata di 18 km dal vecchio centro. Le macerie del vecchio paese, raso al suolo dal sisma, vengono avvolte in uno spettacolare cretto cementizio di Burri, mentre i piani per la città e i nuovi edifici vengono affidati a urbanisti, artisti ed architetti di fama mondiale, sperando che l’arte e la cultura possano riscattare la difficoltà di far rinascere una comunità dal nulla. Per un decennio Gibellina diventa il centro della ricerca e del dibattito architettonico nazionale: il piano di ricostruzione è di Marcello Fabbri, la successiva variante dello studio Ungers. Le opere più importanti vengono affidate a figure come Samonà, Gregotti, Consagra. Negli strani spazi ancora semivuoti della nuova città lo studio Purini/Thermes e Francesco Venezia realizzano le loro prime opere importanti. Gibellina insomma è un museo di arte e di architettura contemporanea, che continua negli anni ad accrescere la propria collezione, dove chi amministra deve dal primo momento lavorare, con esiti alterni, per far sì che il museo sia anche lo spazio vitale e vissuto dei cittadini. In questo contesto, nel 1970, l’ISES affida a Ludovico Quaroni l’incarico per la realizzazione della nuova chiesa parrocchiale. Incarico che Quaroni condivide da subito con Luisa Anversa e, più tardi, con Giangiacomo D’Ardia. Il contesto temporale e quello fisico, che corrisponde alla sommità di una collina un po’ appartata rispetto al tessuto urbano, spingono il gruppo dei progettisti verso una...
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