Nel mondo globale le architetture commerciali hanno da tempo assunto il carattere dell’uniformità, destino cui cercano di sottrarsi per lo più attraverso il ricorso a fattori stilistici, a firme autorevoli, a sperimentazioni estetiche. Su questa consapevolezza hanno influito in maniera determinante due definizioni originali: quella di Marc Augé, che chiama nonluoghi, in contrapposizione ai luoghi antropologici, tutti quegli spazi (anche commerciali) che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici. Spazi in cui le individualità si incrociano senza entrare in relazione, i nonluoghi sono un prodotto della società degli eccessi, incapace di integrare e fare suoi i luoghi storici, confinati e banalizzati in posizioni limitate e circoscritte alla stregua di “curiosità” o di “oggetti interessanti”. I nonluoghi sono rappresentativi della nostra epoca, caratterizzata dalla precarietà, dalla provvisorietà, dal transito e dal passaggio, e da un individualismo solitario. Le persone vi transitano, ma nessuno vi abita. La seconda definizione è di Rem Koolhaas, il quale etichetta gli spazi del commercio come junkspaces, poco più che prodotti architettonici costituiti da scale mobili e aria condizionata, concepiti in incubatrici di cartongesso, e che spesso distruggono il significato degli edifici. Ad incoraggiare chi, come noi, pensa che esistano opportunità generate dall’intersecarsi di commercio e cultura, si sono sviluppate teorie che invitano a giudicare i luoghi in funzione delle relazioni che rappresentano, producono ed ispirano, del loro contesto territoriale e sociale piuttosto che in relazione al loro carattere autonomo, privato o estetico. Di questo parla Kengo Kuma nel suo bellissimo saggio “Anti-object”, nel quale prende posizione nei confronti dell’architettura autoreferenziale e coercitiva, distinta dal suo ambiente e dal suo contesto: “gli edifici che sono deliberatamente realizzati distinti dal loro ambiente sono molto differenti da...
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