Nicola Leonardi - Chicago, la sua città, è chiamata “the windy city”, la città del vento. Io preferisco ricordarla come la città dove sono state poste le basi per l’architettura del XX Secolo, forse “la città dell’architettura”. Deve essere stata per lei una inesauribile fonte di ispirazione. Come vive il rapporto con la sua città? Nasce da qui l’idea del Premio Pritzker?
Thomas J. Pritzker - In realtà all’origine del premio, partito nel 1979, c’è un signore che venne da noi con un’idea, quella di istituire un premio annuale in ambiti non previsti dal Nobel. Della lista delle varie aree non contemplate dal Nobel faceva parte, tra le altre, l’architettura. Come proprietari della catena alberghiera Hyatt ed originari di Chicago eravamo consapevoli dell’impatto che l’architettura ha sulle persone, nella vita di tutti i giorni. Chiunque ne è influenzato. Fu così che iniziammo a collaborare con Carleton Smith.
Era necessario prima di tutto istituire una giuria indipendente da noi, composta da uomini e donne di cultura provenienti da tutto il mondo, non necessariamente architetti, ma capaci di capire l’architettura, che svolgessero il compito della selezione. La qualità della giuria era l’elemento critico per garantire il valore del premio, riflesso della competenza di chi lo assegnava.
Certo, anche Chicago è stato un riferimento fondamentale all’origine della nostra idea di istituire un premio per l’architettura. Il Millennium Park ad esempio ha una storia interessante ed è in qualche modo legato al premio e sicuramente a noi. Al di sotto del parco scorre una brutta rete ferroviaria che passa attraverso la parte più bella di Chicago. Il sindaco voleva realizzare un parcheggio al di sopra della rete ferroviaria ed un parco a copertura del tutto: i ricavi del parcheggio avrebbero finanziato l’operazione nel suo complesso. Non aveva pensato però alla possibilità di creare un parco straordinario, all’architettura e all’arte che vi si potevano realizzare. Mia madre, che allora faceva parte del comitato cittadino per l’architettura disse “no! Non approvo, penso che sarebbe un’ottima idea costruire un parco ma credo che possiamo fare qualcosa di meglio di un parco uguale a qualsiasi altro nel mondo”. Disse che voleva Frank Gehry per il progetto del Music Pavilion.
Frank era stato vincitore del premio ed è un amico. Il premio ha fatto crescere la nostra consapevolezza per l’architettura così come lo ha fatto per gli altri. Il sindaco era incerto, “io sono di Chicago e mi piace quello che si produce qui” diceva, ma mandò lo stesso qualcuno da Frank a chiedergli se voleva disegnare una parte del parco. Frank rispose “no, non posso, sono troppo occupato, non sono in grado di farlo prima del nuovo millennio”. Al delegato che dichiarava che ne avrebbero ritardato l’apertura se avesse acconsentito, Frank disse “c’è qualcosa che non va, mi state nascondendo qualcosa, nessuno può desiderare di rimandare l’apertura dell’intero parco per questo motivo!” Quando sentì che era Cindy, mia madre, a volere che fosse lui a occuparsene, mise le mani in alto e dichiarò (sorridendo) “va bene, non discuto, lo faccio, se è Cindy a volerlo”.
Il premio e Chicago sono intrecciati con la storia della mia famiglia, e penso che abbia consentito la realizzazione di progetti di architettura ed arte straordinari, contribuendo a valorizzare la nostra città.
N.L. - Nello statuto del Premio Pritzker avete sottolineato che premiare ogni anno un grande architetto e quindi sostenere il mondo dell’architettura è importante anche in riferimento all’assunto di quanto l’architettura sia capace di influire sul comportamento umano. Vuole approfondire questo aspetto?
T.J.P. - Ritorniamo a Frank, non voglio sovrastimarlo, ma la sua domanda mi rimanda ad un’esperienza che abbiamo avuto mentre eravamo in vacanza in Spagna, a Madrid. Avevamo detto ai nostri figli che volevamo portarli a Bilbao a visitare il suo edificio. Brontolarono, non volevano visitare un museo - allora erano adolescenti - ma noi insistemmo, “no, no, no, dobbiamo andare e vi porteremo con noi”. Così andammo a Bilbao e arrivammo al Guggenheim. Mentre scendevamo le scale vedemmo i loro sguardi illuminarsi. Iniziarono a parlare e c’era un’energia nuova, in questi tre ragazzi, un’energia che non avevo mai visto prima.
Uno di loro si avviò verso l’edificio e cominciò a sfregare la mano lungo le scandole di titanio e quando si accorsero che potevano farlo, tutti e tre iniziarono a correre su e giù per il museo facendo scorrere le mani sul rivestimento. Era affascinante guardarli. Quella che vedi nei bambini è una reazione istintiva, e potevi vedere la loro emozione davanti ad un edificio così straordinario. Questa esperienza ha confermato una teoria che avevo: l’ambiente in cui ci si trova può influire sulle nostre emozioni, può, secondo me, provocare un processo chimico nel nostro cervello. Non penso si tratti soltanto di emozioni, credo proprio che ci sia una spiegazione scientifica. Quando per esempio ti trovi in montagna, o siedi lungo un fiume, o tra le piramidi, o in uno straordinario edificio moderno, senti nascere un processo di idee, uno stato d’animo e una serie di emozioni molto concrete.
È sufficiente andare al Millennium Park e osservare la gente ferma davanti a quello che oggi è noto come “The Bean” (il fagiolo), una scultura di Anish Kapoor, mentre guarda la propria immagine e la città riflesse, per accorgersi che arte e architettura hanno veramente un effetto sulla vita delle persone. Per quanto riguarda l’arte è più complicato, perché si trova nei musei e devi andare lì per vederla, mentre l’architettura si trova intorno a noi e può realmente influenzare il comportamento di tutti i giorni.
N.L. - Un altro argomento importante è quello relativo all’impatto dell’architettura sull’ambiente. Quali sono le sue idee riguardo al tema della sostenibilità?
T.J.P. - É un tema che mi sta particolarmente a cuore. Per esempio alla Hyatt, come possiamo contribuire nel campo della sostenibilità? Abbiamo costituito un intero dipartimento per valutare il nostro operato in termini di impatto ambientale e ho affrontato varie discussioni con persone che se ne occupano. Ritengo questo un argomento di primaria importanza. Nell’ambito di un’interessante conversazione con il presidente di una multinazionale mi resi conto, facendo un’analisi quantitativa della provenienza del biossido di carbonio, difficile da stabilire, che molto inquinamento è prodotto in seguito alla distruzione delle foreste, dal traffico e un insieme di altri fattori della nostra vita quotidiana: è certo che anche il consumo energetico degli edifici costituisce una delle principali fonti inquinanti. In questo senso l’innovazione architettonica può dare un contributo significativo alla salvaguardia ambientale.
E’ molto importante che la gente chieda ai leader politici di occuparsi di questo problema e che sia al contempo disposta a pagare un prezzo per la soluzione, poiché condizionerà il loro tenore di vita. L’architettura ha una posizione unica poiché può contribuire alla soluzione del problema in due modi: con l’innovazione in termini di consumo energetico degli edifici e come guida ideologica, nel senso che può rendere la società più consapevole e decisa a chiedere ai governi di occuparsi del problema, oltre che più disposta ad accettare le conseguenze che accompagnano la sostenibilità.
N.L. - Architettura e etica: quali sono i limiti di architettura e creatività, dal momento che sembra non esistano più limiti alla tecnologia? Gli architetti pensano di poter realizzare qualunque cosa. Quando la creatività in architettura è ancora da intendere come propositiva e quando invece supera i propri confini? E soprattutto quali possono essere identificati come limiti etici?
T.J.P. - Non ci avevo mai pensato… proviamo in questo modo. Lo sviluppo tecnologico ha consentito agli architetti di creare forme e volumi prima impensabili, molti limiti imposti dagli strumenti tradizionali nell’ambito dell’ingegneria e dei materiali, ha ragione, sono stati eliminati. Di conseguenza è la nostra creatività, la creatività del singolo architetto che pone i limiti allo skyline delle nostre città. Sarà la reazione della società di fronte a quello che gli architetti producono, se si tratta di opere inaccettabili, non apprezzate o perfino detestate, a determinare il loro insuccesso. Spero che sia questo a guidare le scelte architettoniche. Credo che la soluzione - sono un ottimista riguardo alla vita, così come riguardo al futuro - di alcuni dei nostri problemi più complessi, si tratti di sostenibilità o terrorismo o epidemie, deriverà dalla nostra creatività. Non si potrà trovare una soluzione puramente economica. Se saremo in grado di istruire la gente, liberando la loro creatività, sarà la società stessa a imporre i propri limiti.
Ritornando alla sua domanda quindi, sarà la società - architetti, sviluppatori, consumatori, la comunità - a determinare lo sviluppo dello skyline delle città. Secondo me questo è meglio di quando i limiti erano determinati dagli strumenti tradizionali della progettazione o dagli ostacoli imposti dai materiali. Stiamo entrando in un’epoca, non solo in architettura, dove l’immaginazione è il nostro unico limite. Si tratta di un concetto emozionante che potrà aiutare a risolvere anche il problema della sostenibilità. Si apre un’era nuova se pensiamo alla velocità dei cambiamenti e al ritmo con cui si susseguono. Alcune sere fa mi trovavo con alcune persone del mondo dei computer e ridevamo di come io fossi stato uno dei primi utenti e-mail, ormai quasi dodici anni fa. È difficile ricordarsi quei tempi e rendersi conto di quanto profondamente sia cambiato il mondo in solo dieci anni. Penso che assisteremo a cambiamenti ugualmente significativi in tempi sempre più brevi e lo trovo affascinante. Avvertiremo i cambiamenti anche nel mondo dell’architettura attraverso la nuova generazione di architetti, che sarà capace di impiegare le nuove tecnologie essendo completamente a proprio agio con esse. Questo determinerà un cambiamento nel panorama non soltanto degli importanti edifici pubblici, ma anche delle abitazioni e degli edifici normali, case di campagna e dell’ambiente urbano nel suo complesso.
N.L. - Così forse la risposta risiede nella domanda, la creatività stessa deve trovare i propri limiti etici.
T.J.P. - Sì. In un certo senso è così. Si tratta di un condizionamento, non fisico, ma, come lo intende lei, etico. O forse si tratta di un condizionamento del mercato: chi costruisce un edificio orribile, non otterrà altri incarichi. Ci saranno dei condizionamenti oltre a quelli posti dall’immaginazione, e rimarranno alcuni limiti fisici, anche se non così significativi come nel passato. I limiti fisici lascieranno spazio ad altri tipi di limiti. Lo trovo molto stimolante.
N.L. - Ritorniamo a Chicago, la sua città. Architettura e struttura. Chicago offre un modello di sinergia tra architetti e ingegneri. Il Marquette Building, il Reliance Building di fine ‘800 o la John Hancock Tower, per arrivare più vicino ai giorni nostri, sono esempi di architettura che non sarebbe stato possibile realizzare senza lo studio e l’impatto rivoluzionario della struttura. Cosa succede oggi? Architetti e ingegneri sembrano essere in forte antagonismo. Qual è la sua opinione al riguardo?
T.J.P. - Non sono un architetto e non vedo cosa succede dietro le quinte, ma la prego di andare a vedere cosa sta succedendo al Chicago Art Institute. Stiamo costruendo un’ala nuova dell’edificio, progettata da Renzo Piano. Stiamo realizzando con lui anche un ponte, con una lunghezza di 182 metri, che risulterà un’importante prova di ingegneria e congiungerà l’Art Institute al Millennium Park. Piano voleva un ponte sottile come una lama, perché percorrendo la Michigan Avenue non coprisse la vista del lago che si apre verso est.
Il ponte attraversa una strada principale, la Monroe Street. Non si è trattato di un progetto semplice perché copre una grande distanza utilizzando una struttura sottile. La costruzione del ponte è appena iniziata ed io penso che Piano abbia risolto il problema in modo straordinario anche grazie alla collaborazione degli ingegneri. Certo lui ha degli ingegneri con cui è abituato a lavorare, e che sono abituati a lavorare con lui. Parte del suo successo è dovuto al fatto di aver formato una squadra di professionisti che lavorano in sinergia. Gli ingressi del padiglione di Gehry e della nuova ala museale di Piano sono sulla stessa linea direttrice e dialogano, collegati attraverso il ponte. L’edificio di Renzo è “Renzo”, è fantastico ma è profondamente diverso da quello di Frank che ovviamente è “Frank”. In fondo però hanno fatto la stessa cosa: creare un’architettura straordinaria grazie al lavoro di una squadra di specialisti che hanno collaborato, invece di porsi in posizioni di contrasto.
Anche Gehry ha realizzato un ponte all’interno del Millennium Park. Vale la pena di attraversarlo per sentire le sensazioni che genera. Ha la forma di un serpente. Dall’altra parte per ora non c’è nulla; non c’è ragione di attraversare il ponte, ma le persone lo attraversano soltanto per il piacere di farlo e non perchè può condurre in qualche luogo. Non è la meta che conta quanto il viaggio: potrebbe essere il paradigma di questa opera, vissuta oggi.
Entrambi, Renzo e Frank, hanno saputo creare una squadra straordinaria di collaboratori esperti in discipline diverse.
Quello che osservo oggi negli affari, come in architettura, è che le persone più affermate non sono star individuali, come Frank Lloyd Wright. In realtà si tratta di squadre, anche se sono conosciute con il nome di una star, il loro capo, il loro brand. Penso che in futuro saranno gli studi di architettura capaci di sviluppare un concetto di team, dove si incroceranno ingegnere strutturista, designer ed esperti nelle varie discipline, inclusi per esempio gli ingegneri ambientali, ad avere successo. Ci sono architetti che dicono “l’ingegnere è il mio limite”. Il futuro sarà di coloro che vedono nell’ingegnere un compagno di squadra che gli consente di concretizzare quanto suggeritogli dall’immaginazione.
Penso che in una situazione ideale si verifichino scambi di opinione, discussioni, anche animate, ma dove tutti sono uniti dalla condivisione di uno stesso obiettivo, con un’unica passione. Vedo accadere lo stesso nel mondo degli affari, dove il modello dell’impresa di successo prevede un lavoro di squadra, perché oggi gli affari sono diventati troppo complicati per il modello tradizionale del brillante amministratore delegato.
N.L. - Ho partecipato alcuni giorni fa ad una conferenza con Jorge Schlaich, ingegnere strutturista che collabora con Frank Gehry in Europa. Ha per lui molta ammirazione… e se è un ingegnere a dirlo, è significativo. Mi diceva “Nicola, lui mi spinge sempre al limite, questa è la mia sfida”. Mi è sembrato molto stimolante, in qualche modo…
T.J.P. - Penso che questa sia la posizione adottata dai grandi ingegneri. La sfida per Renzo nella realizzazione dell’ala nuova dell’Art Institute a Chicago o della Morgan Library a New York, era quella di realizzare una parete di vetro che quasi scomparisse. Trattandosi di strutture di dimensioni importanti era indispensabile un’integrità strutturale. Questi progetti hanno richiesto una collaborazione intensa con gli ingegneri e i produttori, che ha infine reso possibile trasformare la sua visione in realtà. Credo che Richard Rogers faccia la stessa cosa. Osservando le sue architetture vedo come l’integrità strutturale è fondamentale per i suoi progetti e tuttavia la struttura è integrata nel disegno. Nell’elenco dei nostri premiati, Thom Mayne dipende da questo, Zaha Hadid dipende da questo. È la conseguenza delle nuove idee condivise con quelle dei propri collaboratori e penso che tutti gli architetti stiano integrando nel loro gruppo ingegneri strutturisti.
Il problema di chi si occupa dell’aspetto commerciale dello sviluppo edilizio è quello di non poter dare un incarico separato per un progetto di ingegneria strutturale, poiché l’ingegnere fa oggi parte di un team. Da un punto di vista commerciale potrei scegliere di indire un concorso per ogni livello, per l’architetto così come per tutti i vari gruppi che partecipano al progetto, ma sarebbe più complicato perché Frank, Renzo o Richard direbbero: “è un problema perché io non ho mai incontrato gli altri team di progettazione. Se devo discutere con loro tutto il giorno e se non capiscono il mio obiettivo e la mia idea, l’edificio si farà, ma non avrà la forma che volete, oppure il disegno sarà fantastico ma la struttura non sarà corretta”. Non si possono compromettere né una né l’altra di queste componenti quindi si deve trovare un metodo più integrato. Lo stress o la tensione, non necessariamente negative, ma forse salutari, tra le esigenze commerciali, quelle del design e quelle strutturali possono portare ad un migliore risultato. Siamo all’inizio di questo processo.
Credo che il premio abbia contribuito parzialmente a far sì che i costruttori siano diventati più consapevoli del fatto che le grandi architetture hanno una convenienza commerciale. Si può aggiungere valore ad un edificio, costruendo un buon edificio.
N.L. - Sarebbe un risultato straordinario se questo accadesse!
T.J.P. - Stiamo iniziando a vedere questi risultati, i developer iniziano a dire: “sai una cosa? Voglio proprio che sia Zaha Hadid a fare il mio edificio, per ragioni commerciali, perché contribuisce al mio scopo di guadagnare denaro”. Grandi architetture e guadagno commerciale sono negli ultimi anni improvvisamente diventati alleati. Non sono più visti in antagonismo e questo penetra sempre più nella psicologia dei costruttori. Presto vedremo delinearsi il triangolo che ho descritto, tra costruttori, architetti e ingegneri strutturisti, in una forma di collaborazione, di squadra. Tutto proprio perchè il profitto commerciale deriva dalla richiesta della comunità e degli utilizzatori di un’architettura sempre migliore e più sofisticata.
Siamo stati noi a costruire l’edificio in cui siamo ora (The Hyatt Center, ndr) e abbiamo riflettuto a lungo sull’impatto che avrebbe avuto sullo skyline, e le problematiche legate all’ambiente. Il risultato è stato quello di costruire un edificio di grande qualità avendo capito l’importanza delle opportunità legate alla realizzazione di progetti architettonici di alto livello. Speculando sul futuro, magari inizieremo a vedere costruttori che preferiscono lavorare con un determinato architetto, e forse lo vorranno al proprio fianco per la realizzazione di più progetti. Se si è in grado di formare una buona squadra si ottiene un effetto moltiplicatore.
Il fatto che i risultati ottenuti con un team siano migliori di quelli di un singolo individuo ce lo dimostrano le partite di basket giocate da squadre di campioni contro quelle di club: una squadra con i più grandi atleti di tutti i tempi, che giocano insieme soltanto in qualche allenamento e una partita, non avrà i risultati di quella club, perché questi sanno giocare come un team. Vedremo lo sviluppo della stessa consapevolezza anche nel mondo dell’architettura, quando il concetto di squadra sarà divenuto fondamentale. Questo argomento lo approfondiremo in un nostro prossimo incontro. Grazie
Chicago, The Hyatt Centre. Lunedì, 10 dicembre 2007
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