Ci sono tre chiavi di lettura che possono aiutarci ad inquadrare l’opera di Duilio Damilano. Sono la simbolica, la scultorea e l’emozionale. Chiave simbolica: Damilano studia architettura non senza frustrazioni al Politecnico di Torino quando scopre che a Milano è attivo un workshop di Daniel Libeskind. Comincia a frequentarlo appassionandosi a un approccio che riesce a combinare, in forma innovativa, sentimento e ragione attraverso la riscoperta della dimensione metaforica e simbolica. Una linea di ricerca questa che presto condurrà Libeskind a progettare quel capolavoro che è il museo ebraico di Berlino, dove riuscirà a legare (simbolo deriva dal greco symballo, che vuol dire unire) in un unico racconto fisica e metafisica, storia e riflessioni metatemporali. La proposta, per quanto a tratti oscura e non priva di aspetti esoterici, permette di uscire dalle secche citazioniste del post-modern, alla fine degli anni ottanta in Italia ancora dominante, e riorientare la ricerca architettonica verso la concretezza dello spazio, visto come il medium in cui l’invisibile diventa visibile manifestandosi. Chiave scultorea: Damilano è figlio e fratello di scultori. Il gusto per il volume quindi ce l’ha nel DNA. Da qui l’interesse per il decostruttivismo che ha puntato sull’aspetto plastico, recuperando una tradizione - quella degli anni cinquanta e sessanta rappresentata dalle opere di Eero Saarinen, Jørn Utzon, John Johansen - che, sempre per colpa del gusto postmodern, pareva essersi persa. Ma un decostruttivismo più alla Hadid che alla Gehry, dove prevale l’unità della forma rispetto alla sua frammentazione e dove, per dirla utilizzando una categoria lanciata tra la fine dell’ottocento e gli inizi del novecento dal critico Bernard Berenson, è esaltato l’aspetto tattile. In cui cioè la scultura-architettura non attira solo lo sguardo ma anche gli altri sensi, riempiendo con la propria presenza l’ambiente in cui è collocata. Chiave emozionale: Damilano racconta che sin da...
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