La Moderna Sensibilità Ecologica | The Plan
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La Moderna Sensibilità Ecologica

Scritto da Luigi Prestinenza Puglisi -

Per Marshall McLuhan la moderna sensibilità ecologica nasce nel 1969 quando il primo uomo sbarca sulla luna e osserva la terra che, vista da lontano, sembra una navicella sperduta nel cosmo. Sono tuttavia le crisi petrolifere, più che i successi spaziali, che risvegliano le coscienze sullo stato del pianeta e delle risorse energetiche. A partire dalla crisi del 1973 che moltiplica il costo del barile e finire con quella seguita all’attentato alle Twin Towers dell’11 settembre 2001, dove oro nero, terrorismo e Islam si mescolano in una miscela esplosiva. A disinnescare la quale sembra possa provvedere l’ecologia la quale, evocando un rapporto di armonia e di equilibrio con la terra, si trasforma in un viatico per un mondo migliore, nell’abracadabra per restituirci quel paradiso terrestre che l’uomo ha compromesso. Spinti da una possente pressione ideologica, anche gli architetti italiani, tradizionalmente molto tiepidi verso temi che non siano esclusivamente linguistici, si sono appassionati alle problematiche ambientali, e tutto ci fa prevedere che per il prossimo lustro la sostenibilità diventerà uno dei temi centrali della loro ricerca progettuale. Contribuisce a confermarci questa certezza il fatto che il vecchio Star System con forme scintillanti e strabilianti, ma di regola poco sostenibili, ha finito per annoiare e che a partire dalla biennale del 2000 di Massimiliano Fuksas dall’accattivante titolo Less Aesthetics More Ethics, sono sempre più insistenti, anche da parte degli architetti alla moda, le richieste di ricentrare l’architettura sui suoi fondamenti etici. Come accade a tutte le parole magiche, succede però che il termine ecologia ognuno lo usa a modo suo: tanto è vero che in Italia oggi esistono contrapposte famiglie di architetti ecologically correct. A differenziarli è il rapporto che hanno con la tecnologia e con la ricerca formale. Vi sono innanzitutto gli ambientalisti luddisti che vedono in qualsiasi costruzione una minaccia. Sono in prima fila contro la cementificazione anche quando, come è accaduto con il boicottaggio dell’auditorium di Niemeyer a Ravello, di natura incontaminata ne esisteva poco e nulla. Vi sono poi gli architetti tradizionalisti che guardano all’architettura vernacolare. Presenti in prima fila alle conferenze che Leon Krier tiene in Italia, comprano la rivista “Abitare la terra” diretta da Paolo Portoghesi. Una terza categoria è rappresentata dai low-tech. Orientati verso una ricerca linguistica d’avanguardia, la perseguono attraverso l’uso di apparati tecnologici relativamente semplici e un intelligente uso delle risorse naturali. Tra questi vi sono i giovanissimi gruppi degli Avatar e di 2a+p: i primi nel progetto per VeMa presentato alla recente biennale di Venezia hanno mostrato alcune inaspettate possibilità del bambù, i secondi stanno da tempo lavorando sull’uso del verde all’interno dei processi costruttivi. La quarta categoria dei “contestualisti” raccoglie gli architetti particolarmente sensibili al tema di un contemporaneo landscape metropolitano cioè di un paesaggio in cui architettura e natura si integrano perdendo la loro originale diversità. Ci stanno lavorando, con approcci diversi, studi di notevoli dimensioni come quello di Benini i cui ultimi progetti sono spesso risolti nel sottosuolo per lasciare in superficie ampi spazi trattati a verde ed équipe decisamente sperimentali, come T studio e Metrogramma, con proposte in cui la dimensione territoriale è prevalente su quella edilizia. Alla quinta categoria appartengono gli “umanisti tecnologici”, quegli architetti come Renzo Piano e Mario Cucinella che lavorano su tecnologie avanzate ma senza mai cadere né in una eccessiva esibizione di strutture e impianti, come per esempio accade in molti edifici high-tech, né in un troppo impersonale e autocompiaciuto - sino ai limiti del virtuosismo manierista- soft-tech, come negli ultimi edifici di Norman Foster o di Santiago Calatrava. Vi sono, infine, gli architetti che lavorano con il digitale e le interrelazioni. Che pensano che l’edificio, diventando intelligente e cioè in grado di produrre feedback, rassomiglierà sempre di più a un organismo vivente. Questo programma di ricerca, a mio avviso molto promettente, oggi sembra essere caduto in disgrazia perché viviamo un momento in cui il nuovo produce ansia. Ma, se mi è lecito fare una previsione, la paura non durerà a lungo e proprio dalle nuove tecnologie verranno la gran parte delle innovazioni che renderanno migliore l’habitat in cui vivremo nel prossimo futuro.

Luigi Prestinenza Puglisi

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