Con una frase lapidaria si può definire Piero Lissoni “ uno che fa prodotto”. Non già per liquidarlo in tre parole, anzi per dargli il merito, in un periodo di divagazioni, decorazioni e rivisitazioni, di saper fare del “vero design”, quello industriale, di serie, da vendere: pezzi da usare nel quotidiano, con i quali convivere il più a lungo possibile. Non oggetti sensazionali per stupire, più da pubblicare, che da utilizzare.
Del resto è lui il primo a dire: “alla fine credo che il nostro sia un mestiere. E punto! Bisogna finirla di avvolgerci in questo abito sacerdotale “tuttista”. Non siamo salvatori del mondo. Io cerco di riumanizzare quello che mi capita sottomano, impiegando il mio linguaggio. Ci sono diverse tonalità, conviene individuare la propria e prendervi confidenza per tentare di esprimersi al meglio”.
La metafora linguistica ben si adatta a definire il metodo di Piero Lissoni. Molti sono i prodotti che portano la sua firma. L’80%, per sua precisa ammissione, ha funzionato; il 20% ha” funzionicchiato”. Ma Piero, prima che di prodotto, è designer di aziende. Ne crea l’idea, l’aggiorna e la rinnova, orchestrando i prodotti, suoi e di altri, inventando gli allestimenti e le atmosfere. In linguaggio marketing si direbbe che è un creatore di brand, termine per le aziende del mobile ancora un po’ misterioso, e forse anche minaccioso. Cerca il dialogo con le aziende e le rispetta. E da loro è rispettato. Anzi adorato. Ogni sua richiesta è legge: sanno che non è arbitraria, o umorale, ma che nasce da un faticoso percorso d’avvicinamento ad una perfezione impossibile da raggiungere, ma sempre inseguita con ripensamenti continui. Per questo, anche all’ultimo istante, accettano di modificare su sua indicazione i prototipi. “Se fosse per me”, dichiara, “i progetti non li finirei mai. Sono le aziende che ad un certo momento dicono basta e me li tolgono dalle mani!”
“L’attuale cultura del design” prosegue, “è viziata dal sensazionalismo.Le...
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