Certo che talenti come Matali Crasset e Marcel Wanders sono indiscutibili. I progetti di personalità simpatiche e multiculturali come i fratelli Campana e Satyendra Pakhalé sono gioia per gli occhi e per la mente. È bello incontrare in giro per l’Italia una folla di designer stranieri giovani (e meno giovani) attratti dal know-how delle nostre aziende o invitati a tambur battente dalle strutture di marketing e pubbliche relazioni del sistema abitare. Il fenomeno è sempre esistito e negli anni ’60 e ’70 sono molti i designer stranieri che si sono trasferiti in Italia a lavorare, da Makio Hasuike ad Andries Van Onck, da Isao Hosoe a Richard Sapper, compiendo una vera scelta di vita. Poi negli anni ’80 e nei primi anni ‘90 con l’avvento del fax e della telefonia mobile una nuova generazione di progettisti ha iniziato il via vai con il Nord Italia e alcuni di essi, come Philippe Starck, Ron Arad, Ross Lovergrove devono il loro stratosferico lancio proprio ai prodotti realizzati e comunicati da aziende italiane. Fino a quel momento il sistema ha mantenuto un suo equilibrio: italiani e stranieri si giocavano le loro opportunità presso le aziende di grido e i progetti migliori quasi sempre vincevano. Negli ultimi dieci anni tutto è mutato: buona parte del giovane star system del design deve sempre la sua fortuna e visibilità alle aziende italiane, ma sui cento nomi under 45 che furoreggiano, i nostri conterranei si contano sulle dita di una mano.
Cosa è successo?
È successo che paesi meno fanfaroni del nostro hanno capito per tempo che il design è una risorsa economica fondamentale e hanno messo in piedi dei progetti sociali di lunga durata ad esso dedicati. Le istituzioni pubbliche e private, le ambasciate, i comuni, i musei, le università che in Inghilterra, Francia, Olanda, Belgio, Finlandia, Svezia, Giappone, Canada etc. lavorano alla formazione e alla promozione dei designer locali sono così numerose che bisognerebbe redigere un elenco. Due casi...
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