Un attimo prima dell’inizio degli anni Ottanta, Bob Geldof e il suo gruppo diventano famosi nel mondo con una canzone di cui tutti conoscono il refrain, ma pochi all’epoca devono aver compreso esattamente il significato. Come per una vera punk-pop band che si rispetti, la storia (autentica) è quella di una diciassettenne californiana: un bel lunedì, dalle finestre di casa si mette a sparare sulla sua scuola con il fucile del padre, ferendo molti suoi compagni e uccidendo il direttore e il custode. Il titolo della canzone è la risposta che la ragazza dà come motivazione della sparatoria: una specie di estensione pazzoide di quella stanchezza da inizio settimana, o monday morning blues, che è condizione comune a molti lavoratori, ma che naturalmente si guardano bene dal far fuori colleghi e superiori (anche se spesso, ammettiamolo, questa sarebbe una soluzione a molti problemi, ad esempio il mobbing). A distanza di venticinque anni, più profetica e al tempo stesso plausibile, sembra invece l’idea di un microchip che, opportunamente installato nel corpo umano, dia sempre maggiori capacità d’interazione con il mondo, con le infinite interfacce elettroniche di fronte a cui ci troviamo nell’attività per la sopravvivenza: a cominciare dal lavoro stesso, o almeno quel tipo di lavoro che oggi rientra nella sfera della cosiddetta ICT, ovvero Information and Communication Technology, ovvero la quasi totalità del lavoro in un mondo dove il preistorico “terziario” si avvia a diventare - se non lo è già - “primario”.
Di fronte a questa prospettiva assolutistica, in cui per lavorare parrebbe impossibile fare a meno di macchine sempre più piccole e sofisticate, molte ipotesi fantaprogettuali sono state fatte, soprattutto quella che prevede un ufficio sempre più impalpabile, fatto al massimo di onde elettromagnetiche che viaggiando tra ogni possibile oggetto o persona, in qualche modo, miracolosamente, porterebbero alla realizzazione di tutte le comunicazioni e i...
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