Dante O. Benini è uno di quei progettisti molto più conosciuti tra i non addetti ai lavori che tra coloro che seguono l’architettura esclusivamente attraverso la letteratura specialistica. Due sole riviste di architettura si sono, infatti, occupate sistematicamente della sua produzione: l’Architettura, cronaca e storia, sino ad alcuni anni fa diretta da Bruno Zevi, che di Benini è stato uno tra i più autorevoli estimatori, e l’Arca per interessamento del direttore Cesare Casati. Articoli ed interviste appaiono, invece, con frequenza crescente sulla grande stampa e sulle riviste straniere sia per la rilevanza dei progetti, che investono contesti urbani e ambientali di interesse strategico, sia per l’approccio brillante, a volte inconsueto e non privo di accorgimenti sperimentali che trapela dalle opere dello studio.
A giustificare la distrazione di una parte della critica di architettura per un lavoro anche quantitativamente cospicuo vi è probabilmente il fatto che Benini - come è del resto capitato ad altri architetti sostenuti da Bruno Zevi - ha fatto parte di una linea culturale antagonista a quella delle scuole vincenti di Tafuri, Gregotti, Portoghesi che, sia pure da posizioni diverse, hanno monopolizzato il dibattito architettonico italiano negli anni ottanta e in buona parte dei novanta. Ma il vero motivo è, a mio giudizio, un altro, anche perché, altrimenti, si spiegherebbe con difficoltà il persistere del silenzio anche oggi, quando parte delle fratture che dividevano gli opposti schieramenti sembrano essere state smussate in nome di un eclettismo politeista e accomodante.
Dobbiamo allora ipotizzare che il lavoro di Benini operi all’interno di quella che per una parte della cultura architettonica italiana è ancora una zona d’ombra, interessando aspetti che ancora oggi producono disagio. Di questi, tre sembrano i più evidenti: sono il sospetto per i valori autonomi della disciplina, il gusto della dimensione professionale, il fascino per...
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