La rivendicazione della così detta specificità dell’architettura italiana è sicuramente una delle recenti sciocchezze, inventate da alcuni critici e da architetti per giustificare la scarsa attenzione della pubblicistica internazionale verso la produzione nostrana. A rivendicare una originalità nazionale sono, paradossalmente, due gruppi schierati su fronti opposti: il primo è composto da architetti che vogliono far passare la loro fiacca produzione di sapore tradizionalista come un rilevante contributo nazionale al dibattito contemporaneo, il secondo è composto da imitatori delle nuove tendenze, a volte tanto entusiasti da sembrare cloni, che vogliono mostrare di essere diversi dai loro modelli stranieri di riferimento. Non mi si fraintenda: non voglio negare l’esistenza di alcuni temi, per esempio contestuali e paesistici, prediletti dagli architetti italiani oppure affermare che non vi sia un certo modo di intendere la forma, un “high touch”, che ci caratterizza. Voglio solo dire che da qui a parlare di via italiana alla contemporaneità ce ne passa. E che di architetti di razza che possano rientrare in questa categoria, oltretutto scivolosa sul terreno concettuale, dell’italian way ce ne sono pochi, anzi, pochissimi: tra questi c’è Cino Zucchi. Il quale, solo per citare il caso più eclatante, è riuscito a costruire a Venezia, dove hanno fallito geni stranieri del calibro di Wright e di Le Corbusier. Segno che la sua è stata percepita come una architettura non dirompente, radicata al luogo. Ma diversamente da altri, quali Gregotti, che negli ultimi decenni hanno potuto realizzare opere in un contesto lagunare tanto delicato quale quello della Serenissima, Zucchi è subito balzato agli onori della cronaca internazionale perché dei suoi edifici se ne è percepita l’importanza, la novità. Qual è il segreto, allora, di questo architetto milanese, nato nel 1955, laureato prima al MIT di Boston e poi al Politecnico di Milano? Io direi: uno e semplice. Unire...
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