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Architettura e natura, pensieri su una possibile convivenza

Tony Joseph

Architettura e natura, pensieri su una possibile convivenza
Scritto da Tony Joseph -

Nelle prime fasi della pandemia, il filosofo radicale e anticonformista Slavoj Žižek ha sottolineato con ironia che, proprio nel momento di massimo avanzamento tecnologico e scientifico, l’essere umano è stato messo sotto assedio nel mondo intero «da una delle più umili creature che Dio, nella sua saggezza, ha messo sulla terra». Il  Covid-19, diffusosi in maniera pressoché identica ovunque, ha imposto una pausa forzata obbligandoci a riflettere sul nostro rapporto con la tecnologia: nella nostra arroganza umana, ci siamo arresi al potere mistificatorio e totalizzante della tecnologia? La pandemia è forse un invito a riflettere sulle conseguenze di questa resa? Inoltre, quali sono le sue implicazioni e quali i processi progettuali da intraprendere? 

Fu probabilmente l’istinto di sopravvivenza a spingere per la prima volta l’uomo, come specie, a relazionarsi con i sistemi di conoscenza e a decodificarli. Le strategie elaborate miravano, di fatto, a comprendere e gestire la relazione con l’ignoto e con le forze della natura. A un certo punto, lungo la traiettoria evolutiva, l’istinto di sopravvivenza si è trasformato in impulso di dominio. Una pulsione che ha subito un’accelerazione attingendo alla religione abramitica, la quale pone l’uomo in una chiara posizione di centralità rispetto alla natura, con quest’ultima assoggettata alla sola funzione di servirlo. Il Libro della Genesi (1:28) parla chiaro: «Dio li benedisse e disse loro: ‘Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra; soggiogatela e dominate sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente, che striscia sulla terra’». Da quel momento in poi, il sapere tecnologico e scientifico sarebbe stato unicamente finalizzato a consolidare questa egemonia. La frattura tra natura e cultura, definita da Amitav Ghosh “la grande cecità”, si era dunque compiuta.

Esistono certamente corrispondenze con la storia della progettazione. Il percorso storico della progettazione nell’Occidente industrializzato è infatti una narrazione di trasformazione del sapere scientifico e tecnologico, concepiti come strumenti per affrontare l’ignoto e le forze naturali più avverse. Una trasformazione che si è attuata grazie alla capacità dell’Occidente di reperire risorse finanziarie. Nel corso del tempo, in particolare negli ultimi decenni, i progressi tecnologici hanno accentuato il dominio tecnologico sulla natura. Il risultato di questo processo, chiamato “purificazione” dal filosofo contemporaneo Bruno Latour, è stata la produzione di “spazi sterili”. La ricerca di materiali, tecniche e metodi di progettazione finalizzati a escludere gli elementi climatici e naturali quali temperatura, luce solare e aria (e persino le persone) in modo da creare artificialmente il “giusto ambiente”, ha portato a reingegnerizzare, secondo questi criteri, qualsiasi cosa a qualsiasi scala.

La città occidentale moderna ha offerto una perfetta immagine di questo processo, avviato alla sua pericolosa conclusione: questi spazi sterili segnano una rottura radicale con le città dell’antichità, che erano entità naturali, antropocentriche, basate su un’economia e un’ecologia circolari. La rivoluzione industriale alterò in maniera cruciale l’approccio alla pianificazione urbanistica: la città si trasformò, man mano, in un organismo non più al servizio dell’uomo, bensì delle macchine, delle industrie, delle automobili.

Il fenomeno della globalizzazione ha accentuato questo approccio nelle società in via di sviluppo portando con sé, oltre agli ovvi pericoli, la volontà di colmare il gap con l’Occidente attraverso urbanizzazioni rapide e non pianificate. Questa trasformazione sta procedendo a un ritmo frenetico, complice la facilità di accesso a tecnologie avanzate e risorse. Queste aree geografiche, tra le più densamente popolate del pianeta, accolgono oltre il 60% della popolazione mondiale. Fino allo scoppio della pandemia, ospitavano economie floride e in rapida crescita, con una popolazione giovane disposta a mettersi in gioco a livello internazionale. Esse occupavano, inoltre, regioni tra le più fragili al mondo da un punto di vista ecologico. La pandemia ha messo a nudo la portata di questa situazione insostenibile: piegarsi a un approccio progettuale puramente tecnocentrico, che considera le realtà ecologiche merce di scambio, è qualcosa di inammissibile per il genere umano. Un approccio progettuale che, oltre a minacciare cambiamenti climatici, conflitti sociali e avversità economiche, porta a una rottura nell’interrelazione essenziale tra uomo e natura non è più tollerabile.

Sono cresciuto nella fascia tropicale, vivo nella parte del mondo in via di sviluppo e ho dovuto attraversare mezzo mondo per rafforzare la mia convinzione che la progettazione del futuro debba evidenziare e valorizzare i punti di forza delle singole peculiarità socio-ambientali. Quando abitavo in Texas ed ero allievo di Charles Moore, sviluppai quel modo di vedere descritto da John Berger nel suo Questione di sguardi. Moore, sebbene fosse post-modernista, mi conquistò con il suo approccio regionalista all’architettura, che sottolinea il forte contrasto tra il contesto urbano profondamente industrializzato del Texas e quello di una città media indiana con il suo patrimonio ambientale e culturale. Mi fu chiaro che il successo di un progetto deriva dalla capacità di mettere il progresso tecnologico al servizio del contesto e delle sue specificità. Una progettazione sostenibile non significa solo rispettare l’ambiente e usare materiali green per il gusto di farlo, si tratta piuttosto di progettare architetture in grado di ristabilire una connessione tra uomo e natura e con la capacità di crescere e consolidarsi in armonia con il proprio contesto. A una platea di architetti e progettisti è inutile ricordare come la distanza affini la prospettiva.

È stato verificato che per immunizzarsi dal virus il miglior meccanismo sia iniettarsi un ceppo dello stesso organismo che attacca il nostro corpo. Si ipotizza che il tasso di mortalità da Covid-19 relativamente basso in India, nonostante l’elevata densità abitativa e l’alta percentuale di infezioni, possa dipendere dalla maggiore esposizione a numerosi altri patogeni. Si fa strada l’ipotesi, non confermata, che la tragica esposizione a malattie quali tubercolosi e malaria che da sempre affliggono il Paese possa avere, ironicamente, rafforzato le difese immunitarie della popolazione. Pur trattandosi di congetture non ancora avvalorate, il principio fondamentale dell’esposizione che rafforza l’immunità appare plausibile. Il ritardo nell’adeguamento a uno stile di vita fortemente industrializzato in tali aree geografiche potrebbe essere stato un vantaggio. Anche se per questi paesi si parla di buone prospettive economiche, essi hanno tuttora economie con una esposizione e un radicamento al loro contesto molto forte, sia ambientale sia comunitario, e ai propri sistemi di conoscenza e modi di procedere. Dal momento che questa esposizione riguarda anche il fattore di rischio sanitario, noi architetti e progettisti abbiamo l’opportunità e il dovere di stimolare nuove forme di narrazione spaziale che preservino queste risorse, pur applicando le più recenti innovazioni tecnologiche. Forme, che privilegino ciascuna il ricongiungimento con il proprio contesto ecologico. E questo non significa opporsi allo sviluppo tecnologico. La pausa indotta dalla pandemia è un’opportunità per riflettere sui modi più appropriati ed equilibrati per utilizzare il progresso. Siamo ancora in tempo per correggere la rotta. Le opportunità consistono nel servirsi delle innovazioni tecnologiche per trovare nuove modalità di lavoro in sinergia con la natura, nuove strade per risvegliare nell’essere umano l’istinto biofilico innato che lo predispone a rapportarsi con la natura. 

A livello mondiale, c’è un lento ma costante novero di progettisti e architetti che stanno sostenendo queste stesse idee e la comunità dominante dei professionisti ne sta prendendo sempre più coscienza. I progetti attuati nei paesi del terzo mondo sono sempre più considerati e al centro di un inedito interesse a livello globale. Le carriere e gli interventi a firma dei vincitori del Pritzker Prize nel triennio 2016-18 sono indicatori promettenti di questo cambiamento. È segno dei tempi che questo riconoscimento sia stato conferito nel 2016 a una personalità come Alejandro Aravena, stimato per il suo impegno nell’housing sociale e per i suoi progetti sviluppati attraverso un percorso partecipativo con la collettività, arricchendo la definizione restrittiva di “architetto”. Il lavoro dello studio spagnolo RCR Arquitectes, molto radicato nel territorio di provenienza, si contraddistingue per l’uso sapiente di materiali poveri. È la testimonianza di come l’architettura sia un delicato esercizio di equilibrio, come recita la motivazione del premio (2017) «[…] almeno in architettura, aspirare a far coesistere entrambi gli aspetti: le nostre radici saldamente ancorate al suolo e le nostre braccia aperte verso il resto del mondo». Il vincitore dell’edizione 2018, Balkrishna Doshi, ha messo ancora più in luce l’importanza di una progettazione impegnata nel sociale, come dichiarato dalla Giuria: «[…] con la comprensione e l’apprezzamento delle profonde tradizioni dell’architettura indiana, Doshi ha unito la prefabbricazione e l’artigianato locale e sviluppato un vocabolario in armonia con la storia, la cultura, le tradizioni locali e i tempi mutevoli del suo Paese». Ci sono maestri della generazione passata, come Eladio Dieste - la cui intera produzione è finalizzata all’efficienza strutturale attraverso l’uso ponderato dei materiali - che hanno riconosciuto il valore morale delle nostre scelte progettuali. Citando lo stesso Dieste, «esistono profonde ragioni morali e pratiche alla base della nostra ricerca che orientano e plasmano il nostro lavoro: attraverso la forma che creiamo, possiamo adattarci con grande rispetto alle leggi della materia, instaurando un dialogo con la realtà e i suoi misteri».

Oggi, mentre scrivo questo testo, il crollo di un pezzo di ghiacciaio dell’Himalaya, precipitato in un invaso nel nord dell’India, ha provocato almeno 150 vittime. Non si è mai abbastanza lontani dai pericoli di un impiego dissennato della tecnologia e mai sufficientemente attenti, guidati da un pensiero critico, ad applicare nella prassi architettonica processi innovativi che tengano conto delle caratteristiche ambientali del contesto. È stato questo desiderio di costruire qualcosa partendo dagli insegnamenti ricevuti, di trovare compagni con cui condividere il viaggio e di contribuire a plasmare architetti e - prim’ancora - cittadini del mondo responsabili e partecipi, a spingere un gruppo di progettisti di Calcutta a mettere in pratica la loro passione, fondando nel 2016 l’Avani Institute of Design. 

Nella piena consapevolezza di essere sull’orlo del precipizio, in un momento cruciale nella storia del pianeta, ci adoperiamo per creare forme di apprendimento e azione in armonia con il nostro contesto socio-ambientale. Riconosciamo che non ci sia modo migliore per evolvere di quello di apprendere sui banchi e restituire la conoscenza assimilata alla comunità locale. L’istituto Avani si trova nei Ghati occidentali, la catena montuosa dal ricco patrimonio ambientale che oltre quarant’anni fa vide nascere uno dei più grandi movimenti ambientalisti popolari che ha salvato dal disboscamento questo ecosistema tropicale, secondo solo all’Amazzonia. Con il consiglio e il supporto di grandi maestri, come Balkrishna Doshi, Neelkanth Chhaya, Peter Rich e Rahul Mehrotra, ci impegniamo assieme alla comunità di studenti dell’Avani per elaborare una progettazione etica che, pur ricorrendo alla tecnologia, sia al servizio del contesto socio-ambientale.

Abbiamo la responsabilità e l’opportunità di plasmare spazi che abbattano le barriere tra natura e cultura, nel rispetto di un’innovazione ad alto valore tecnologico facendone un sapiente uso a nostro vantaggio. A differenza di un approccio dominante sulla natura che la codifica come potenziale minaccia, è necessario ristabilire, attraverso la progettazione, le possibilità di un rapporto proattivo tra uomo e ambiente non solo per una mera sopravvivenza, ma per ripristinare una convivenza pacifica e non distruttiva.

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